Adesso è ufficiale: la cosiddetta smart money, gli investitori professionali, hanno la quasi certezza dell’arrivo di un’estate caratterizzata da shock sui mercati e cominciano a dar vita a strategie alternative e contromosse. Al centro dei timori, l’ipotesi Brexit e la Cina con la doppia incognita di svalutazione dello yuan e l’attivarsi di un ciclo di default tra le aziende ultra-indebitate. Nel suo ultimo sondaggio tra i gestori di fondi riguardo quale sia il tail risk più temuto, Bank of America-Merrill Lynch ha visto al primo posto l’ipotesi di abbandono dell’Ue da parte del Regno Unito al referendum del prossimo 23 giugno, seguita al secondo posto proprio dal rischio legato all’economia cinese, valutato come il più serio dal 23% degli interpellati di maggio, quando ad aprile la voce non era nemmeno presente nella classifica.

Altri timori riguardano poi il cosiddetto quantitative failure, ovvero il fatto che le Banche centrali finiscano le munizioni a loro disposizione per sostenere l’economia e la stagflazione negli Usa, ovvero il mix letale di crescita in rallentamento e inflazione in crescita. Tra i gestori di fondi, ben il 36% è underweight su titoli azionari britannici, un livello che non si vedeva dal novembre 2008, sintomo chiaro che chi opera sul mercato sta cominciando a prendere seriamente in considerazione il fatto che il popolo britannico possa davvero compiere il grande passi di dire addio all’Ue. Il report parla chiaro: «Anche se il 71% degli investitori continua a pensare che il Brexit sia improbabile o impossibile, il tonfo nelle valutazioni delle equites britanniche questo mese suggerisce che molti stanno preparandosi al peggio».

Ma c’è anche il rovescio della medaglia, visto che l’estensione delle scommesse ribassiste sul Regno Unito potrebbe essere il palcoscenico di un futuro rally, una volta che la paura fosse passata e Londra avesse deciso di restare nell’Unione: e questo varrebbe sia per la Borsa che per la sterlina, visto che il 20% degli interpellati ritiene la valuta britannica sottovalutata, la lettura più estrema da quando Bank of America ha cominciato a tracciare il dato nel 2008. Per Michael Hartnett, capo della strategia di investimento della banca d’affari, il rally primaverile sui mercati globali si è esaurito a causa della sparizione anche dell’ultima tranche di stimolo da parte delle Banche centrali e ora ci ritroviamo in una fase in chiaroscuro con rischi montanti, visto che il ciclo economico di espansione post-Lehman ha ormai raggiunto la sua fine: «Gli indicatori ciclici principali sono in roll-over e il calo nei profitti corporate negli Stati Uniti avrà un impatto molto pesante sul dato occupazionale nei mesi a venire. Pensiamo che un rally di contro-trend sul dollaro potrebbe riattivare una spirale ribassista sui mercati emergenti e nelle commodities e porre fine del tutto al rally sugli asset più rischiosi».

E la dinamica è già in atto, basti vedere il dato occupazionale Usa di aprile. Se soltanto due giorni prima della sua pubblicazione Goldman Sachs si attendeva un dato di nuovi occupati non agricoli tra 225mila e 240mila unità ad aprile, il Bureau of Labor Statistics ha gettato una secchiata di acqua gelata sull’ottimismo dilagante: solo 160mila unità contro le 203mila attese, peggior lettura dallo scorso settembre. Ma non basta, perché il numero di americani non contemplati nella forza lavoro è salito di ben 562mila unità ad aprile, portando il totale a oltre 94 milioni di persone e non lontano dal record assoluto di 94,6 milioni.

Ma come se questi numeri non fossero abbastanza preoccupanti di per sé, soprattutto se messi in relazione alla grancassa mediatica della ripresa obamiana, ecco che la cosa più sgradevole arriva dalla constatazione che i lavoratori più giovani (16-24 anni e 25-54 anni) abbiano pagato un conto salato al mese di aprile, visto che solo la seconda categoria ha visto sparire 284mila posti di lavoro. E chi ne ha beneficiato? Quasi come in una trasposizione a stelle e strisce della sindrome Fornero, ecco che la categoria 55-69 anni ha visto aumentare gli occupati di 166mila unità. Per mettere le cose in prospettiva, i lavoratori di età compresa tra i 16 e i 54 anni sono ancora 3,5 milioni in meno rispetto al livello pre-crisi del dicembre 2007, mentre nello stesso periodo i lavoratori over 55 anni sono cresciuti di un incredibile 8,1 milioni, arrivando al record assoluto di 34,4 milioni di persone e divenendo il 28,8% del totale di occupati in Usa.

Il motivo? Non c’è bisogno che ve lo spieghi: la disperazione di uomini in età da lavoro licenziati durante la crisi che oggi accettano qualsiasi lavoro – e, soprattutto, qualsiasi paga e condizione – pur di poter raggiungere l’età della pensione. E che il timore sia reale lo conferma il fatto che nelle ultime 12 settimane gli investitori hanno messo qualcosa come 3,5 miliardi di dollari in securities che assicurano da pesanti scostamenti di prezzo, ovvero volatilità in aumento. Si tratta di due del più popolari derivati sulla volatilità inversa, il S&P 500 VIX Short-term Futures ETN (VXX) e l’Ultra VIX Short-Term Futures (UVXY). Stranamente, Goldman Sachs tre settimane fa aveva avvertito i clienti di prepararsi a un periodo prolungato di bassa volatilità. E il fatto che per sua stessa ammissione, George Soros stia comprando oro e scaricando equities proprio per la certezza di un hard landing dell’economia del Dragone, il quale porterà un calo degli indici Usa e un aumento dei prezzi dei titoli di Stato, dovrebbe farci riflettere. Non a caso, la stessa Bank of America ha invitato gli investitori a stare lontani da Wall Street fino a quando l’indice Standard&Poor’s 500 non sarà sceso nuovamente nel range 1950-2000 punti, di fatto prevedendo un mercato molto frammentato e instabile per i prossimi mesi.

Per Torsten Slok di Deutsche Bank i mercati potrebbero avere sottostimato alcune forze inflazionistiche che si stanno creando negli Usa e non stanno ascoltando i chiari avvertimenti dalla Fed per un nuovo rialzo dei tassi: «Si stanno creando le condizioni per una battaglia verso fine anno, penso che vedremo più sell-offcome quelle vissute a gennaio e febbraio». E, in effetti, nella serata di mercoledì dai verbali dell’ultima riunione della Federal Reserve è uscita una chiara conferma che la banca centrale ha lasciato le porte aperte a un rialzo dei tassi di interesse già a giugno.

E, in effetti, alcune forze inflazionistiche stanno decisamente alzando la testa negli Usa, erodendo il potere di acquisto di salari che crescono sì, ma in maniera molto limitata. Esempi eclatanti sono quelli degli affitti, il cui tasso di inflazione è 4 volte quella core rilevata dal Bureau for Labor Statistics, ma anche la benzina alla pompa e i farmaci, visto che a parte il 1998, quando la Pfizer immise sul mercato il Viagra dando vita a un picco dei prezzi, oggi il costo dei farmaci negli Usa sia un serio problema, questo al netto di Obamacare e delle sue spese obbligatorie in assicurazioni sanitarie.

Ad aprile l’aumento su base annua è stato del 9,6%, il maggiore dal 1982. Per Albert Edwards di Societe Generale, il vero segnale d’allarme è quello rappresentato in questo grafico, ovvero l’aumento della ratio tra scorte di magazzino e vendite, oggi a un livello tale da far rivedere i piani produttivi alle aziende, soprattutto quelle dell’abbigliamento e del settore automobilistico. Per Edwards, «le recessioni sono causate dal ciclo di investimento del business. La continua crescita delle scorte è una spada di Damocle che pende sempre più pericolosamente sulla testa degli investitori, visto che i profitti svaniscono e cominciano le liquidazioni».

E che la paura cominci a insinuarsi tra gli operatori lo conferma il fatto che le detenzioni cash dei fund managers a livello globale siano salite al 5,5%, un livello più alto di quello toccato durante la crisi del debito dell’eurozona e paragonabile al momento di stress maggiore del panico seguito al crollo Lehman nel 2008. Insomma, meglio drizzare le antenne e tenere gli occhi bene aperti.