Premessa: chi è d’accordo con papa Francesco e la sua politica di accoglienza tout court verso chiunque arrivi sulle nostre coste, eviti pure di leggere questo articolo. Dunque, mettiamo in fila qualche cifra, visto che i numeri parlano il linguaggio della realtà e non dell’ideologia. Dal primo gennaio al 26 maggio di quest’anno in Italia sono arrivati 40.495 migranti, cui si devono aggiungere i 4mila salvati giovedì nel canale di Sicilia. L’impennata degli ultimi giorni ha riportato il conteggio ai livelli del 2015, quando si toccarono i 153.842 sbarchi. Ma l’orizzonte pare ancor più fosco, perché – in base alle stime del Viminale, quindi ottimistiche per ragioni politiche – a fine 2016 si potrebbe raggiungere la quota record di 200mila. E i Paesi d’origine restano per ora quelli sub-sahariani e del Maghreb, pochissimi i siriani. Quindi, nessun profugo, sono tutti quanti migranti economici. Tutti. 

E sebbene il 90% del flusso provenga dalla Libia, la riapertura della rotta egiziana spaventa non poco: «Dall’Egitto le partenze stanno aumentando e i numeri sono impressionanti», ha spiegato a Repubblica Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Oim. E il piano Juncker che prevedeva la redistribuzione in Europa di 39.600 persone in due anni? Fermo. Da settembre, appena 615 i ricollocati dall’Italia. In compenso funziona a meraviglia, in senso negativo per il nostro Paese, il trattato di Dublino. Negli ultimi nove mesi Francia, Germania, Spagna e gli altri membri Ue ci hanno rimandato un migliaio di profughi fotosegnalati in Italia. 

Già, perché la tanto attesa riforma dei trattati di Dublino, per come è stata articolata la proposta presentata a inizio maggio dalla Commissione Ue, potrebbe diventare per l’Italia la più grande delle beffe. Prevede, è vero, la ripartizione automatica di quote di richiedenti asilo tra i Paesi membri, ma lo fa in base a un parametro – reference key – calcolato sul Pil e sulla popolazione di ogni Stato. Ebbene, al Viminale hanno fatto una simulazione con i dati del 2015: stando ai parametri del “nuovo Dublino”, l’Italia dovrebbe sopportare l’accoglienza di almeno 190mila profughi di primo ingresso e la ripartizione automatica scatterebbe oltre i 231.000 ospiti. Un numero che, evidentemente, non si può reggere. Il meccanismo risulta vantaggioso per la Grecia, che ha un Pil basso e una popolazione meno numerosa e per Francia e Germania, che non sono Paesi di primo ingresso. Dunque, siamo fregati e abbiamo permesso alla Commissione Ue di farlo. Complimenti a Renzi e Alfano, davvero un capolavoro. 

Ma c’è dell’altro che occorre sapere e lo abbiamo scoperto ieri da un ottimo servizio de La Stampa, dal quale si evince che la questione non è soltanto di fame e guerra, ma, soprattutto, di business. Come mostra questa infografica elaborata dal quotidiano torinese, ci troviamo infatti di fronte a un network criminale che opera a livello mondiale. Stando a quanto dichiarato da Ann Mettler, responsabile dell’European Political Strategy Centre (Epsc) della Commissione Ue, il think tank voluta dal presidente Juncker, nel corso di un briefing sulla sicurezza delle frontiere «con dei colleghi Usa, ci è stato detto che alcune delle gang impegnate nel contrabbando di esseri umani nel Nord America, quelle che operano al confine con il Messico, sono ora attive anche in Europa… Quello che talvolta non si capisce è che le migrazioni illegali rendono più potenti i network criminali e diffondono la corruzione. L’incapacità di gestire i flussi migratori ha permesso alle reti criminali di prosperare». Insomma, c’è un grande fratello che sfrutta i disperati e incassa liquidità a palate.

Un rapporto appena diffuso da Europol rivela «che il business dei migranti è un affare multinazionale, orchestrato da persone provenienti da oltre 100 Paesi, dentro e fuori l’Unione». Il fatturato? Fra i cinque e i sei miliardi (2015), denari sborsati quasi sempre in contanti e frutto dell’operatività di oltre 250 centri di smistamento clandestini gestiti dai trafficanti. «Abbiamo indicazioni che la stessa Isis possa essere entrata in questa attività – sottolinea la Mettler -. Non è necessariamente nel traffico illegale, però potrebbe offrire dei passaggi sicuri. Ad esempio, non creano ostacoli a chi attraversa un loro territorio». Insomma, dietro alla favola di chi scappa dalla guerra – il 90% di chi arriva, Siria e Iraq non li ha visto nemmeno su National Geographic -, c’è un bel business rodato, magari garantito anche da finanziatori che non ti aspetti tra gli stessi governi africani, i quali dovrebbero gestire il denaro che l’Ue intende stanziare per bloccare i flussi, i famosi 60 miliardi del Migration compact. 

E, attenzione, perché se come detto in precedenza cominciano a far paura i numeri delle partenze dai porti egiziani, proprio in queste ore una vera e propria bomba a orologeria sta cominciando a ticchettare: la Turchia. Tre giorni fa, infatti, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha avvertito che la questione dell’esenzione da visti per i cittadini turchi che viaggiano nei Paesi dell’Unione europea non è verosimile che venga risolta entro l’1 luglio, a causa della disputa tra Ankara e le autorità europee sulla modifica della legge antiterrorismo turca, condizione posta dall’Ue. «Dobbiamo fare tutto il possibile per continuare il dialogo perché è probabile che entro l’1 luglio alcune cose non saranno pronte, in altre parole l’esenzione per i visti perché alcune condizioni non saranno soddisfatte», ha spiegato la Merkel. 

La Cancelliera tedesca ha inoltre invitato la Comunità internazionale a rispettare gli impegni e mantenere le promesse nella gestione e risoluzione delle crisi umanitarie: «Troppe promesse vengono fatte senza che poi alle parole seguano i fatti. Spesso i fondi vengono promessi, annunciati, ma poi non arrivano e i progetti rimangono ingaggiati. Una contraddizione che deve finire», ha affermato prima di aggiungere che allo stato attuale il sistema di aiuti umanitari «non rappresenta un modello compatibile con le esigenze e sfide del futuro». 

E la Turchia come ha reagito? Ha subito rivendicato che senza l’accordo sulla facilitazione dei visti non si riterrà obbligata a rispettare quello sui migranti. «Il nostro Paese – spiega il consigliere economico del presidente Recep Tayyip, Yigit Bulut – potrebbe fare “scelte radicali” e sospendere tutti gli accordi in essere con la Ue. Non ci aspettiamo nulla da loro», ha dichiarato alla tv pubblica Trt Haber. E ancora: «Lasciamo che continuino ad applicare doppi standard, lasciamo che continuino a non mantenere le promesse fatte ai cittadini turchi. Ma devono sapere che la Turchia molto presto farà scelta radicali se continueranno ad avere questo atteggiamento». 

La Turchia ha stretto con l’Ue un accordo per fermare il flusso di migranti verso l’Europa in cambio di una serie di incentivi tra cui l’abolizione dei visti per i cittadini turchi, ma Ankara deve soddisfare una serie di 72 criteri, dall’adozione dei passaporti biometrici ai rispetti per i diritti umani, fissati all’inizio dei negoziati tra Bruxelles e Ankara sull’abolizione per 90 giorni dei visti verso l’area Schengen. Ma Erdogan ha chiarito che non cambierà le sue leggi antiterrorismo, una della condizioni poste dall’Europa, finché l’esercito combatte con i ribelli curdi nel sud-est. «La Turchia potrebbe rivedere tutti i rapporti con l’Ue inclusa l’unione doganale – ha tuonato Bulut -. Gli accordi di riammissione e tutti gli altri accordi potrebbero essere sospesi. L’Europa deve mantenere le sue promesse». 

E se Erdogan facesse seguire alle parole i fatti, magari dandoci un assaggio di cosa ci attende se Ankara davvero dovesse riaprire i confini e lasciare che i migranti prendano le rotte verso l’Europa? Capite perché da tre giorni al Brennero gli austriaci stanno lavorando anche di notte per concludere il più in fretta possibile il gabbiotto di controllo al confine con l’Italia? Nonostante dal Giappone il buon Renzi abbia come al solito minimizzato, dicendo che non possiamo parlare di emergenza immigrazione in Italia, la realtà è già oggi un’altra. Nella speranza che la Turchia non voglia alzare la posta, altrimenti sarebbe una catastrofe.