Scusate se mi soffermo anche oggi sul tema immigrazione, ma mi pare che qui si stia perdendo il contatto con la realtà, oltre che qualche rotella. Mercoledì l’Ue ha infatti reso note le ultime geniali intuizioni sul tema e non stento a definirle una scelta di eutanasia culturale: stiamo suicidandoci. La proposta di riforma del Trattato di Dublino che la Commissione europea ha presentato ha rotto anche l’ultimo tabù, svelando l’anima marcia e malata delle istituzioni comunitarie: per la prima volta si dà un prezzo alla vita di un migrante, 250mila euro per l’esattezza. È questa la somma quantificata nelle bozze del documento degli eurocrati di Bruxelles circolate in questi giorni: ovvero, o prendi la tua quota di migranti o paghi. 

Avete capito bene: si offre la possibilità agli Stati di rifiutarsi di accogliere, ma pagando 250mila euro per ciascun ricollocato respinto. Resta da capire in quali casse finirà il ricavo delle multe e come sarà usato, ma ci sono dei punti fermi: ad esempio, il fatto che l’Italia nel 2015 ha speso 3,3 miliardi per l’accoglienza (il 30% per il salvataggio in mare) e l’Unione le ha destinato fondi per 560 milioni. Se le multe servissero ad aumentare i fondi destinati ai Paesi ospitanti, il provvedimento creerebbe almeno un embrione di solidarietà europea, visto che la cifra è abbastanza alta da rappresentare un deterrente per chi vuol rifiutare l’accoglienza: se tutti i 160mila ricollocati venissero rifiutati, il ricavato dalle sanzioni ammonterebbe a 40 miliardi. Resta però la grande domanda: gli Stati pagheranno davvero o preferiranno garantirsi la sicurezza interna rifiutando subito gli immigrati e solo in un secondo tempo, forse, dover pagare, magari dopo una procedura d’infrazione lunga mesi o un arbitrato lungo anni? 

Ma non basta, perché le sopraffine menti europee hanno anche partorito altro. Primo, via libera dell’Ue all’estensione dei controlli ai confini per cinque Paesi europei. La Commissione Ue ha infatti presentato una raccomandazione al Consiglio Ue, sulla base di un articolo del Codice Schengen mai usato prima, per permettere ad Austria, Germania, Danimarca, Svezia e Norvegia di estendere i controlli temporanei alle frontiere interne fino a un massimo di sei mesi, ma solo per confini specifici. L’iniziativa è strettamente legata alle carenze persistenti nella gestione greca delle frontiere esterne e, proprio per questo, ad esempio, tra i confini che saranno oggetto dei “check” non figura il Brennero. Il quale, però, verrà comunque blindato dagli austriaci a prescindere. Insomma, si nega l’emergenza e si predica solidarietà, ma qualcuno è più bello degli altri e può tranquillamente ignorare Schengen con il beneplacito delle istituzioni Ue. 

Ma ecco il capolavoro di masochismo assoluto: la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi. La Commissione europea ha infatti raccomandato a Consiglio e Parlamento Ue la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi nell’area Schengen, uno dei punti più controversi e sensibili dell’intesa raggiunta tra i 28 e la Turchia per ridurre gli sbarchi dei migranti in Grecia. Ad Ankara restano cinque criteri da soddisfare, da qui a fine giugno e poi sarà invasione, anche se il vice-presidente vicario della Commissione Ue, Frans Timmermans, si è premurato di sottolineare che i cittadini turchi potranno entrare solo con i passaporti biometrici. Accidenti, un disincentivo davvero devastante. Insomma, dall’estate 80 milioni di turchi potranno muoversi liberamente nell’Ue: anche chi ha supportato e supporta l’Isis o il fanatismo sunnita e salafita, notoriamente di casa da quelle parti, come le recenti cronache siriane ci hanno rivelato e confermato. Insomma, dalla padella alla brace. 

Ma la forza del ricatto che Erdogan ha imposto all’Europa sul tema si riverbera anche in un altro atto compiuto dalle istituzioni comunitarie, ma non balzato agli onori delle cronache: il turco, da qualche giorno, è una lingua ufficiale dell’Ue. A dar vita all’iniziativa è stato il presidente di Cipro, Nicos Anastasiades, il quale ha fatto pressione in tal senso sulla presidenza di turno olandese, motivando la richiesta come un atto finalizzato a implementare gli sforzi diplomatici per giungere a un accordo di riunificazione dell’Isola, la cui parte nord è stata invasa dalla Turchia nel 1974, atto quest’ultimo che è da sempre ostativo all’ingresso ufficiale di Ankara nell’Ue. Nella sua lettera alla presidenza dell’Unione, Nicos Anastasiades faceva però notare come Cipro avesse già avanzato una simile richiesta durante i colloqui per entrare nell’Ue nel 2002, ma all’epoca la risposta fu diversa: “All’epoca fummo avvisati dalle istituzioni europee di non insistere, tenendo conto dello scopo pratico molto limitato di questo sviluppo e dei costi considerevoli”. Cos’è cambiato? Tutto, in primis il fatto che l’Ue è ostaggio di Erdogan. Non a caso, un funzionario turco presso le istituzioni di Bruxelles ha definito il passo «un gesto molto importante. Se il blocco sarà tolto grazie a una risoluzione della questione cipriota, allora potremo procedere speditamente per l’ingresso ufficiale nell’Unione». Certo, manca ancora il voto di ratifica da parte della Commissione europea, ma dopo le follie messe sul tavolo mercoledì, tendo a escludere sussulti di buon senso e orgoglio. 

Stiamo scherzando con il fuoco, come italiani prima che come europei, attuando la politica delle porte aperte, meglio dircelo chiaramente. E a confermarlo è proprio un italiano, Paolo Serra, consulente militare dell’inviato dell’Onu in Libia, Martin Kobler, il quale ha parlato molto chiaro: «Se non interveniamo, in Italia potrebbero arrivare dalla Libia anche 250mila persone entro la fine dell’anno». Ma c’è di peggio, perché a detta del ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian, «attualmente su territorio libico ci sono 800mila migranti che attendono di attraversare il Mediterraneo». E con la bella stagione, indovinate dove andranno, al netto dei Paesi del Nord che hanno ottenuto altri sei mesi di controlli ai confini? 

È stato lo stesso ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, a confermare che nei primi tre mesi di quest’anno in Italia sono arrivati 18.234 richiedenti asilo, l’80% in più del primo trimestre del 2015. A casa mia, si chiama invasione. Perché sono i numeri a dirlo. Anzi, i passaporti. Chi sta arrivando non è un profugo siriano o iracheno, sono migranti economici dal Maghreb, dall’Africa sub-sahariana e da Afghanistan e Pakistan: non ci sono guerre in quei Paesi. C’è la fame, certo, ma è la stessa che patiscono molti italiani, gli stessi che riempiono le mense della Caritas, che chiedono aiuto alle parrocchie o al Banco alimentare per campare. Non possiamo accogliere tutti, mettiamocelo realisticamente in testa, tanto più che nessun altro Paese europeo ha intenzione di darci una mano. Alzano tutti i muri, noi spalanchiamo i portoni e ci facciamo anche prendere per i fondelli, oltre a pagare un conto salato. 

Da inizio anno sono oltre 4mila i ricorsi fatti da stranieri che non avrebbero diritto all’asilo e, quindi, alla permanenza sul suolo italiano e il perché è presto detto: ciò che in Germania viene fatto in meno di 2 mesi, ovvero l’accertamento dei requisiti per ottenere lo status di profugo, in Italia nella migliore delle ipotesi richiede un anno. Quindi, soggiorno spesato in Italia assicurato. Inoltre, ogni pratica costa, per le spese dell’avvocato d’ufficio cui gli immigrati hanno diritto per legge, 600 euro: siamo già a quota 2 milioni di euro e se il trend resterà tale, a fine anno lo Stato italiano avrà speso quasi 8 milioni di euro per garantire tutela legale e permanenza con vitto e alloggio pagato a persone che non hanno diritto a stare in Italia, poiché palesemente clandestini e che passano allegramente le giornate a giocare a calcio o con lo smartphone, magari lamentandosi per la pasta scotta o per il wi-fi lento. Questa non è accoglienza, questa è stupidità. Ma è anche un’industria molto redditizia per tanti soggetti, occorre ammetterlo se amiamo la verità e la realtà e non l’ideologia o, peggio, l’ipocrisia. Ma cosa ci aspettiamo da un continente che nella sua interezza, ovvero l’Europa a 28 Paesi, stanzia all’anno 20 miliardi di aiuti per lo sviluppo dell’Africa, ovvero per ciò che realmente andrebbe fatto per cercare di migliorare la situazione e ne sborsa 6 soltanto alla Turchia perché non ci faccia invadere? 

Signori, poco meno di un terzo di ciò che versiamo in sacrosanta cooperazione con l’Africa lo regaliamo a Erdogan perché altrimenti li carica sui pullman e ce li spedisce, come ha minacciato di fare parlando con Tusk e Juncker all’ultimo G-20. In compenso, facciamo entrare di fatto la Turchia nell’Ue: la legge Basaglia mostra tutti i suoi limiti, quando si ha a che fare con l’Europa. Ma al di là della sostenibilità economica e sociale del fenomeno, c’è da mettere in conto un altro fattore: la sicurezza. 

Nel silenzio generale dei nostri media, infatti, il 27 marzo il ministro dell’Interno per le aree urbane francese, Patrick Kanner, ha lanciato un grido di allarme durante un’intervista alla tv Europe 1: «A oggi, per quanto ne sappiamo, ci sono un centinaio di quartieri in Francia che presentano potenziali similitudini con quanto è accaduto a Molenbeek». Ovvero, il sobborgo di Bruxelles a totale controllo salafita divenuto l’epicentro del jihadismo in Europa e da dove, il 13 novembre dello scorso anno, partì la cellula che compì le stragi di Parigi e che lo scorso marzo attaccò l’aeroporto di Bruxelles e la stazione della metropolitana di Maalbeek. Immediatamente, un collega di Kanner, il segretario del Partito socialista francese, Jean-Christophe Cambadélis, attaccò il ministro, dicendo che con le sue parole «dissolve l’armonia nazionale», subito spalleggiato da un altro esponente di partito, Julien Dray, che dichiarò «non mi piace quando stigmatizziamo le persone». 

Ma Kanner, convinto della pericolosità del fenomeno che ha denunciato, il giorno dopo rilasciò un’intervista al quotidiano Le Parisien nella quale dichiarava quanto segue: «Amedy Coulibaly (il killer del supermercato kosher di Parigi, ndr) veniva dalla Grande-Borne a Grigny, Mehdi Nemmouche (l’attentatore al museo ebraico di Bruxelles, ndr) aveva risieduto a Tourcoing in Borgogna e Mohamed Merah era del subborgo Mirail di Tolosa. Sono fatti». E Malek Bouth, deputato socialista di origine araba, confermava a stretto giro di posta: «È la prima volta che un ministro per le aree urbane ha detto almeno un po’ di verità, ovvero che quei ghetti si stanno trasformando, un poco alla volta, in zone che non possiamo controllare bene. Sobborghi che sono incubatrici di terroristi». E cosa serve per costruire una Molenbeek? Lo ha detto a inizio aprile Gilles Kepel, professore all’Institut d’études politiques di Parigi e uno dei più grandi esperti di islamismo in Francia: «Un forte sistema di crimine organizzato legato al traffico di droga, luoghi per nascondere i terroristi e le armi e politici locali che accettino che i salafiti aprano moschee incontrollabili in numero infinito». Ma, sempre Kepel, sottolinea: «Il vero obiettivo dei salafiti è occupare e prendere in ostaggio i quartieri, al fine di ingaggiare una guerra di enclave». 

E gli esempi si sprecano, in tal senso. A Sevran, un sobborgo di Parigi, la locale moschea salafita è stata chiusa alcune settimane fa, perché reclutava dozzine di giovani musulmani per conto dell’Isis. Nadia Remadna è una giovane operatrice sociale di religione musulmana che vive e lavora proprio a Sevran, dove ha dato vita alla “Brigata delle madri” per aiutare le donne a tenere sotto controllo i figli e, soprattutto, tenerli lontani dall’influenza salafita e nel 2014 ha scritto un libro provocatorio dal titolo Comment j’ai sauvé mes enfants (“Come ho salvato i miei figli”) e con un sottotitolo che è tutto un programma, Avant on craignait que nos enfants tombent dans la délinquance… Maintenant on a peur qu’ils deviennent terroristes (“Prima si temeva che i nostri figli diventassero delinquenti…. adesso abbiamo paura che diventino terroristi”). Bene, il 14 marzo scorso Nadia Remadna ha ricevuto una telefonata minatoria: “Sappiamo dove vanno a scuola i tuoi figli e tua figlia è davvero bella”. Il giorno dopo, una delegazione di donne salafite completamente velate e autodefinitesi “le vere mamme musulmane” ha bussato alla sua porta e e ha detto quanto segue: «Vogliamo moschee, non scuole». Questo, in un sobborgo di Parigi nell’anno del Signore 2016, non a Peshawar o a Mosul. 

E quanti sono i salafiti in Francia? Stando all’ex capo dell’Ufficio sulle religioni del ministero dell’Interno, Bernard Godard, tra i 15mila e i 20mila, mentre il politico Antoine Sfeir fissa la forbice tra 20mila e 30mila. Stando a fonti di polizia, su 2500 luoghi di preghiera islamici nella Francia metropolitana, 90 sono gestiti da salafiti e questo numero raddoppia ogni tre anni. Si trovano principalmente nei sobborghi di Parigi, nella regione di Lione e a Marsiglia. 

Per quanto riguarda la capitale, si tratta di un’ora e mezza di aereo da Milano. Per le altre due aree del Paese, anche meno. Vogliamo diventare un’altra Francia e poi dover piangere morti o vivere in ostaggio, a Roma come a Torino?