Il Draghi che tutti si aspettavano, ma con una punta di pessimismo in più. È bastato infatti seguire l’andamento dell’euro durante la conferenza stampa del numero della Bce per capire che si è voluto sapientemente spegnere gli entusiasmi di qualcuno (leggi la Germania) legati al trend rialzista dell’inflazione nella parte finale del 2016. Nel momento in cui da Francoforte è risuonata chiara la formula del “rischio al ribasso” per l’eurozona, la moneta unica si è schiantata nel cross con il dollaro. Una strategia, chiara: annerire un po’ le nuvole all’orizzonte, dipinte troppo come innocui cirri dalla Bundesbank e garantirsi l’ambiente adatto per forzare la mano con Berlino e confermare gli impegni. 

Draghi ha infatti detto che la Bce continuerà a condurre gli acquisti all’attuale ritmo mensile di 80 miliardi di euro fino alla fine di marzo, mentre da aprile proseguirà a un ritmo mensile di 60 miliardi fino alla fine di dicembre od oltre, se necessario. In ogni caso, si continuerà a comprare finché non si riscontrerà un aggiustamento durevole dell’evoluzione dei prezzi, coerente con il proprio obiettivo di inflazione, attorno ma inferiore al 2%. Inoltre, contestualmente agli acquisti netti, sarà reinvestito il capitale rimborsato sui titoli giunti a scadenza acquistati nel quadro del Qe. Ma non basta, perché Draghi ha detto che «se le prospettive diventassero meno favorevoli o se le condizioni finanziarie risultassero incoerenti con ulteriori progressi verso un aggiustamento durevole del profilo dell’inflazione, il consiglio direttivo è pronto a incrementare il programma in termini di entità e/o durata». Immagino l’umore alla Bundesbank e al ministero delle Finanze tedesco. 

Per il resto, tutto confermato, con il costo del denaro fermo a zero nell’area euro. Il direttivo della Bce ha infatti lasciato invariati i tassi principali: il refi, il tasso di rifinanziamento pronti contro termine, resta, infatti, a quota zero, mentre il tasso sui depositi, cioè quello che le banche pagano per depositare i loro fondi a Francoforte, rimane negativo a -0,40%. Invariato anche il tasso marginale a +0,25%. E che Draghi abbia voluto preparare bene le sue mosse di ieri lo fa indirettamente capire anche il debole risultato delle aste spagnole di ieri mattina, le quali hanno favorito la liquidazione di qualche posizione in eccesso sulla periferia. I bid-to-cover sui titoli spagnoli 2022 e 2023 in asta, rispettivamente 1,4 e 2,2, sono stati abbastanza bassi, segnalando – guarda caso – un’attività d’acquisto della Bce finora limitata. Come dire, cari tedeschi voi potete anche vendere al mondo la narrativa dell’inflazione in rialzo e della necessità di cominciare con il tapering degli acquisti, ma, alla fine, la realtà la conoscete bene anche voi: se smetto di comprare io, addio rendimenti a zero e spread placidi come laghi alpini. 

Insomma, non credete a chi vi venderà il Draghi di ieri in versione colomba: lo è stato rispetto al Qe, ma verso la Bundesbank è stato decisamente falco. Un azzardo che a Berlino dubito manderanno giù senza reagire. Per Draghi, infatti, «l’inflazione nell’eurozona recentemente è aumentata, in larga parte per via del rincaro dei prezzi dell’energia, ma le pressioni sui prezzi rimangono basse. L’inflazione core dell’Eurozona, quella al netto dei prezzi di energia e beni alimentari, non mostra segnali di un convincente trend al rialzo e l’attuale rialzo dell’inflazione è fondamentalmente trainato dai prezzi dell’energia». 

Poi, la carota, tanto per non incupire troppo gli investitori. «In generale, comunque, ci sono dei segnali di rafforzamento della ripresa globale. Nell’eurozona si è, infatti, assistito a una crescita più robusta nel quarto trimestre del 2016 ed è prevedibile che l’espansione continui grazie alla politica monetaria accomodante che sta sostenendo la domanda interna e il corrente processo di disindebitamento», ha dichiarato Draghi, il quale però si è immediatamente premurato di sottolineare che «in ogni caso, i rischi per le prospettive economiche dell’eurozona restano orientati al ribasso, principalmente per fattori di ordine globale». Equilibrismo perfetto, smorzare gli entusiasmi, ma senza attribuirsene la responsabilità. 

Poi, il rituale richiamo alle riforme che i governi non applicano: per Draghi, infatti, «la crescita dell’eurozona è frenata dal lento ritmo di applicazione delle riforme strutturali e dagli aggiustamenti di bilancio in alcuni settori. Le riforme strutturali sono necessarie in tutti i Paesi dell’unione monetaria», tanto più che «per poter cogliere appieno i benefici della politica monetaria accomodante, altre aree della politica devono contribuire in maniera più decisiva sia a livello nazionale che internazionale». Per Draghi, «le riforme strutturali devono, quindi, essere accelerate in maniera decisiva per rilanciare gli investimenti, combattere la disoccupazione strutturale e rilanciare la produttività». 

Pur astenendosi da giudizi troppo netti su Brexit e Trump, il governatore della Bce ha voluto dire la sua rispetto alla denuncia di dollaro troppo forte avanzata dal nuovo presidente Usa, di fatto lanciando un monito alla comunità internazionale affinché vigili rispetto a strappi troppo netti: «C’è un forte consenso internazionale sia nel G7 sia nel G20 riguardo l’astenersi da svalutazioni competitive. Comunque, i tassi di cambio non sono un target, ma sono importanti per la stabilità dei prezzi». Cosa aspettarci, quindi? Difficile dirlo in tempi simili. L’altra sera, parlando a un convegno a Sa Francisco, il capo della Fed, Janet Yellen, ha cercato di smorzare l’entusiasmo inflazionistico che contorna le promesse in campo economico di Donald Trump, sintomo che il timore di fiammate che impongano uno stravolgimento della tabella di marcia del rialzo dei tassi è ben presente nei vertici della Banca centrale Usa. Quindi, a mio avviso, occorrerà navigare a vista almeno per i prossimi tre mesi, quando si capirà qualcosa di più dei trend globali e di come le prospettive inflazionistiche Usa andranno a incidere sulla politica monetaria reale: è un gioco di specchi, sostanzialmente e Draghi lo sa. 

Il problema per la Bce è che mentre osserva le mosse d’Oltreoceano, deve affrontare anche una delle spaccatura più nette di sempre al suo interno: il round di ieri se lo è assicurato Mario Draghi, ma state certi che non ci vorrà molto prima che Berlino reagisca, magari utilizzando l’Italia come proxy per colpire il numero uno dell’Eurotower. Più che la querelle su FCA-Volkswagen, è infatti l’atteggiamento da falco che ha tenuto ieri Pierre Moscovici, storicamente una colomba, nell’incontro con Pier Carlo Padoan sulla nostra manovra correttiva a far pensare: almeno a livello di fermezza verso i nostri conti pubblici, la Commissione e i vari commissari Ue sembrano in sintonia nel farci capire che stavolta la pacchia è davvero finita. Flessibilità zero, rigore a mille. 

È potenzialmente una partita di ping pong che vede il nostro Paese nel ruolo di pallina e questo potrebbe essere rischioso, soprattutto se Draghi decidesse davvero di forzare la mano. Resta il fatto, certificato dall’Istat ufficialmente l’altro giorno, che l’intero 2016 l’Italia lo ha passato in deflazione, quindi l’ipotesi di tapering per eccesso di aspettative inflazionistiche è un qualcosa che va bene solo per la narrativa di Berlino. Altra cosa è il fatto che questa conferma altro non è che la rappresentazione plastica del dato più preoccupante: al netto di quanto messo in campo dalla Bce, l’Italia ha beneficiato solo a livello di costo del servizio del debito grazie alla compressione artificiale dello spread. L’economia reale e il credito sono pressoché a zero, il tutto con un comparto bancario pronto a fungere da detonatore e accelerante di quell’incendio potenziale che si chiama eurozona. 

Mi sbaglierà, ma entro l’estate mi aspetto qualcosa di drastico: o Draghi andrà all-in con il Qe, arrivando alle soglie dell’acquisto azionario o senza capital key per i bond oppure potrebbe annunciare la fine del suo mandato, magari in prospettiva di voto in Italia. Lo scontro di potere in atto è troppo forte per poter tracheggiare a lungo e l’eurozona è troppo debole per poter continuare lungo questo cammino: serve una scossa, una rottura netta. Con le vacanze estive, potrebbe arrivare. Ovviamente, servirà un casus belli, un pretesto. E temo saremo noi.