Per capire il livello di scontro sotterraneo in atto tra le varie Banche centrali basta vedere il tempismo con cui la Bce ha reagito alla decisione della Fed di porsi in modalità colomba sull’aumento dei tassi, addirittura facendo mettere in discussione a qualche analista gli annunciati tre rialzi nel corso del 2017. Nel suo bollettino mensile pubblicato ieri, l’Eurotower conferma che, nonostante la riduzione degli acquisti di asset da 80 a 60 miliardi a partire dal prossimo mese di aprile, continua ad attendersi che i tassi di interesse di riferimento si mantengano su un livello pari o inferiore a quello attuale per un prolungato periodo di tempo e ben oltre l’orizzonte degli acquisti netti di attività. Contestualmente agli acquisti netti, si legge nel documento dell’Eurotower, sarà reinvestito il capitale rimborsato sui titoli giunti a scadenza acquistati nel quadro del programma di acquisto di attività: insomma, alla faccia della Bundesbank, il Qe dunque andrà avanti finché non ci sarà un aggiustamento sostenuto e sostenibile nei prezzi. Forse, uno degli azzardi politici più grandi compiuti finora da Mario Draghi.
E che il messaggio della Bce sia indirizzato alla Banca centrale tedesca lo dice chiaro e tondo il fatto che, focalizzandosi sull’impennata dell’inflazione a gennaio nella zona euro, l’Eurotower imputa il recente aumento ai rialzi dei prezzi sull’energia, aggiungendo che le pressioni di fondo restano contenute. In prospettiva, sulla base delle quotazioni correnti dei contratti futures sul petrolio, è probabile che l’inflazione complessiva aumenti ulteriormente nel breve periodo, riflettendo in gran parte movimenti del tasso di variazione sui 12 mesi dei prezzi dell’energia: «Tuttavia le misure dell’inflazione di fondo dovrebbero mostrare un incremento più graduale nel medio termine, sostenute dalle misure di politica monetaria della Bce, dall’attesa ripresa economica e dalla corrispondente graduale riduzione della capacità produttiva inutilizzata».
Inoltre, «il Consiglio direttivo continuerà a guardare oltre le variazioni dell’inflazione qualora siano valutate temporanee e senza implicazioni per le prospettive per la stabilità dei prezzi nel medio termine». Infine, per la Bce la crescita economica dell’area dell’euro sarebbe frenata sia dalla lenta attuazione delle riforme strutturali e dagli ulteriori aggiustamenti dei bilanci in diversi settori, sia dai rischi esogeni a livello globale, tali da mantenere le prospettive di crescita orientate al ribasso.
A pesare, nemmeno a dirlo, sono il Brexit, dopo il voto a valanga di Westminster mercoledì sera in favore dell’attivazione dell’articolo 50 e proprio il nuovo corso politico del neo presidente Usa Donald Trump, orientato al protezionismo: «I rischi al ribasso per le prospettive degli investimenti delle aziende riguardano fattori geopolitici, ivi comprese le incertezze legate all’uscita del Regno Unito dall’UE e le politiche commerciali degli Stati Uniti». Insomma, Draghi ha più paura del fallout del Brexit e della Trumpnomics che dei fantasmi di Weimar della Bundesbank. E fa bene.
Perché se l’atteggiamento attendista della Fed era ampiamente scontato dai mercati, ciò che ha messo in allarme l’Europa e gli analisti è la lettera inviata dal vicepresidente repubblicano della Commissione servizi finanziari alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti proprio a Janet Yellen, presidente della Federal Reserve, alla vigilia del board. Eccone i contenuti, durissimi: «La Federal Reserve deve cessare tutti i tentativi di negoziare norme vincolanti che ostacolano le imprese americane nei consessi internazionali come il Financial Stability Board, il comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, o l’associazione internazionale dei supervisori per le assicurazioni, fino a che il presidente Trump non avrà avuto l’opportunità di nominare e incaricare funzionari che diano priorità nel modo migliore agli interessi americani».
La missiva ha cominciato a circolare a Bruxelles proprio poco prima della riunione della Fed e ha immediatamente scatenato preoccupazione per quello che viene visto come un attacco al principio stesso dell’indipendenza della banca centrale Usa e, in particolare, alla Yellen, il cui mandato da presidente scade nel febbraio 2018, ma che potrebbe lasciare prima, se si arrivasse a un muro contro muro con la Casa Bianca. E si mormora che Donald Trump non starebbe aspettando altro. Ma McHenry affonda ancora di più la lama: «Le scrivo riguardo alla continuazione della partecipazione della Fed alle riunioni internazionali sulla regolamentazione finanziaria. Nonostante il chiaro messaggio inviato dal presidente Donald Trump sulla prioritarizzazione degli interessi americani nei negoziati internazionali, sembra che la Federal Reserve continui a negoziare norme e regole internazionali per le istituzioni finanziarie fra burocrati mondiali in terre straniere senza alcuna trasparenza, responsabilità o autorità per farlo». In parole povere, il potere politico è tornato a comandare su quello monetario, è Washington a decidere quale sarà la politica della Fed e non più il contrario: qualcosa di addirittura copernicano, in un mondo dove i parlamenti sono ormai succubi delle Banche centrali e dei loro diktat.
È questa la vera rivoluzione di Trump, ancorché solo in divenire, un totale cambio di narrativa rispetto a quella emergenziale dell’era del Qe infinito e onnipotente: il presidente Usa vuole un dollaro meno forte per battere la competizione internazionale – Germania, Cina e Giappone in testa – e la Fed dovrà supportarlo in questa volontà: quindi, scordiamoci repentini rialzi dei tassi che rafforzerebbero il biglietto verde, tanto che il comunicato finale del Fomc parlava chiaramente di «rialzi graduali» e focalizzati sull’evoluzione dei dati macro. E con tutti gli indicatori dell’economia Usa che parlano di pre-recessione e picco della bolla su diversi assets, scordiamoci una Fed interventista.
C’è però una variabile: il solo annuncio del piano di investimento infrastrutturale di Trump ha fatto schizzare in alto l’inflazione, quindi occorrerà monitorare questo dato molto attentamente in ottica di rialzo dei tassi. In compenso, però, lo stesso problema verrà posto – statene certi – ancora e ancora dalla Germania nei confronti della Bce, di fatto mettendo Draghi in una situazione di difficoltà non pari, ma molto simile a quella della Yellen.
È bastato il comunicato del Fomc per far recuperare all’euro quota 1,08 sul dollaro, livello che non vedeva da novembre: Trump ha una strategia e passerà sopra chiunque come un carro armato pur di vederla realizzata. Il grafico a fondo pagina parla chiaro quello appena conclusosi è stato il peggior mese di gennaio di sempre per l’obbligazionario sovrano europeo. Di sempre. E poi, pensate che Cina e Giappone staranno a guardare, mentre le loro divise si apprezzano sul mercato dei cambi, complicando in un caso il contrasto alle fughe di capitali e alla bolla del credito e, nell’altro, il mantenimento del livello prefissato dalla Bank of Japan per il cambio yen/dollaro, necessario per mantenere l’export e non rendere inutili gli acquisti con il badile del Qe nipponico?
Stiamo avvicinandoci a una delle più grandi guerre valutarie e commerciali della storia moderna, uno scontro che ridimensionerà ruoli e vedrà potenze che finora hanno convissuto, limitando gli scontri a scambi di fioretto, scendere sul campo di battaglia nella logica del “ne resterà soltanto uno”. La Cina quasi certamente cercherà di depotenziare ancora di più il ruolo di valuta benchmark globale del dollaro, utilizzando lo yuan negli scambi commerciali con i partner più stretti (Russia, Iran, Africa), mentre Washington cercherà di imporre una dollarizzazione del globo quasi reaganiana, tanto per marcare il territorio e utilizzare il biglietto verde come arma per dirimere le controversie internazionali, strozzando i Paesi debitori alla bisogna.
Spero che Mario Draghi, uno che le politiche statunitensi le conosce bene, stia lavorando a delle contromosse, perché come avrete notato gli scenari che vi delineavo già due settimane fa stanno prendendo forma a velocità siderale. Restare senza un contingency plan in condizioni simili, significa soccombere. E se non sarà la Bce a intervenire, lo farà la Germania per non farsi strozzare dalla concorrenza degli Usa sull’export. A quel punto, addio per sempre all’eurozona.