L’Italia, come la gran parte dei Paesi occidentali, soffre di un grave problema di denatalità. Nel 2019, prima dello scoppio della pandemia, nel nostro Paese si erano registrate appena 435.000 nascite a fronte di 647.000 morti. Nel 2020 ci sono stati appena 405.000 nati, che corrispondono a un tasso di fertilità (pari al numero medio di figli per donna) inferiore a 1,2. Anche considerando, ottimisticamente, un innalzamento della speranza di vita, questi dati implicano che, al netto dei flussi migratori, la popolazione italiana potrebbe dimezzarsi in due generazioni: meno persone e persone mediamente più anziane.



Il dato è molto preoccupante per diverse ragioni. Forse la più evidente è quella degli squilibri macroeconomici che da esso si genereranno: uno per tutti, l’elevato numero di pensionati a carico di ciascuna persona in età lavorativa, con le conseguenti difficoltà a garantire le pensioni. C’è tuttavia una ragione forse meno immediatamente evidente, ma non meno importante. L’invecchiamento e la riduzione della popolazione riducono la creatività, la propensione al cambiamento e all’innovazione, nonché lo spirito costruttivo. A maggior ragione, quando, come accade in Italia, alla riduzione delle nascite si associa l’emigrazione all’estero di molti nostri giovani talenti (di cui già si era parlato in un precedente articolo).



L’invecchiamento della popolazione rischia di portarci in una spirale negativa da cui è difficile uscire. Una popolazione mediamente più anziana e con pochi figli e nipoti è mediamente poco sensibile alle politiche che favoriscono la natalità, come, tra le altre, le misure fiscali per i figli, gli investimenti in asili nido e i congedi di paternità o maternità. Tende ad essere, al contrario, più interessata a politiche pensionistiche o alla riduzione delle liste di attesa nel settore sanitario. È dunque evidente che, in un Paese vecchio, il ritorno elettorale di politiche che favoriscono gli anziani tende ad essere maggiore rispetto a quello di politiche per giovani. Da qui il circolo vizioso: più il Paese è vecchio, più le politiche favorevoli alla natalità si allontano dalla lista delle priorità, con il conseguente rischio di entrare in un circolo vizioso nel quale è sempre più difficile invertire la tendenza all’invecchiamento.



Come risolvere il problema? Pensare di farlo solo con l’immigrazione è illusorio. L’integrazione degli immigrati è particolarmente complessa nelle società anziane, e rischia di creare pericolosi effetti di rigetto nella popolazione. Senza contare che i dati mostrano come anche gli immigrati, una volta che risiedono in Italia, riducono la loro propensione ad avere i figli, facendola convergere verso quella degli italiani. 

Servono, al contrario, politiche in grado di favorire, o quanto meno di non ostacolare, chi sceglie di avere figli. La recente approvazione dell’Assegno unico, che pure segna un passo avanti, non è sufficiente. Peraltro, a prescindere dai pregi e dai difetti della misura specifica, già messi in evidenza su queste pagine, le attuali (poche) politiche per la natalità soffrono del grave problema di essere transitorie e tendenzialmente soggette a continui cambiamenti: offrono dunque un sostegno a chi i figli li ha, ma difficilmente impattano sulle scelte delle famiglie relative a quanti figli mettere al mondo. Per convincere una famiglia ad avere figli, serve fornire un orizzonte di pianificazione sufficientemente lungo, e quindi un clima complessivo tale da favorire la natalità. Alle istituzioni è dunque richiesto un impegno serio e credibile, ma, soprattutto, di lungo periodo. 

Come ottenerlo? Un modo è quello di approvare un cambiamento costituzionale che dia rappresentanza ai figli, sulla base del quale i genitori votano per i figli al di sotto dei 18 anni. L’idea, originalmente attribuibile al grande filosofo Antonio Rosmini, e poi ripresa più recentemente dal demografo ungherese Paul Demeny e da Luigi Campiglio, ha importanti conseguenze dal punto di vista di politica economica. Le stiamo esaminando, insieme a Matteo Rizzolli, Tommaso Reggiani e Federico Trombetta, nell’ambito di una ricerca che coinvolge l’Università di Bolzano, l’Università LUMSA, l’Università di Cardiff e l’Università Cattolica. 

È evidente che, con questo sistema di voto, le esigenze delle famiglie, e, indirettamente, anche quelle dei bambini, ne trarrebbero beneficio. Non vi sarebbe nessuna violazione del principio democratico, in quanto il principio “una testa, un voto” non sarebbe alterato; anzi, ne uscirebbe rafforzato, perché potrebbe essere applicato anche per chi ha meno di 18 anni. Chi programma di avere figli, potrebbe sentirsi più tutelato perché più rappresentato: non tanto per il suo voto aggiuntivo (che peraltro a qualcuno potrebbe fare piacere), ma per il maggior peso collettivo di chi ha bambini piccoli. La nuova geografia elettorale che ne deriverebbe potrebbe convincere i partiti a riorientare le proprie priorità verso le politiche pro-natalità: magari dirottando anche una parte della molto cospicua (e crescente dopo il Covid) spesa pubblica italiana verso un obiettivo che nel lungo termine potrebbe avere ricadute positive, dal punto di vista economico e sociale, enormi. 

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