Come noto il Documento di economia e finanza 2023 è stato approvato e, rispettando la tradizionale consuetudine che segue tale iter governativo, all’indomani della pubblicazione dei relativi numeri sono arrivate le prime obiezioni. Questa volta, però, l’intero pacchetto attuativo si è presentato in forma molto sintetica, infatti per avere la versione completa dell’intero documento si dovrà attendere. Nell’attesa, comunque, consultando i comunicati stampa del Governo si giunge facilmente alla principale fonte che, nonostante la propria estrema sintesi, fa comunque emergere un quadro sufficientemente puntuale per poter trarre alcune conclusioni.
In questa sede vogliamo concentrare l’attenzione a un’unica e specifica voce che, nella tabella riportata (l’unica), ha suscitato in noi un interessamento dovuto alla sua “particolare” indicazione. Diciamo “particolare” poiché tale può essere considerata a seguito della stessa evoluzione che l’ha vista confermata nella versione definitiva oggi diffusa al pubblico.
Come detto, consultando il comunicato stampa n. 28 del Consiglio dei Ministri, il Def 2023 rende nota la sua forma con i molti aspetti di significativa importanza a partire dagli obiettivi che il Governo si è posto. Tra i tre riportati, quello che a noi interessa maggiormente, è il terzo: «La riduzione graduale, ma in misura sostenuta nel tempo, del deficit e del debito della Pubblica amministrazione in rapporto al prodotto interno lordo (Pil). Il Governo conferma gli obiettivi di indebitamento netto in rapporto al Pil già dichiarati a novembre nel Documento Programmatico di Bilancio (Dpb), ossia 4,5 per cento quest’anno, 3,7 per cento nel 2024 e 3,0 per cento nel 2025. L’obiettivo per il 2026 viene posto pari al 2,5 per cento». Il debito, come ovvio, è sempre una priorità per le casse dello Stato Italia e, anche questa volta, l’attenzione dei governanti è presente.
Nell’intero contesto “del debito” la voce che non riscuote il nostro consenso è quella strettamente riconducibile ai cosiddetti “interessi passivi”. Quest’ultimi, infatti, per l’anno in corso, vengono indicati con un valore in percentuale del Pil pari al 3,7 per successivamente incrementare il loro ammontare al 4,1 (2024), 4,2 (2025) e 4,5 (2026). Nel loro complesso si tratta di un insieme di valori che gravitano attorno a una media annuale del 4% circa, ma, è indubbio, come la significativa riduzione per il 2023 (al 3,7% dal precedente 4,4%) possa apparire fin troppo decorrelata (e pertanto ottimistica) rispetto all’attuale dinamica dei tassi di interessi.
È evidente come la spesa per interessi in capo al nostro Paese sia aumentata vertiginosamente nel corso di questi ultimi 18 mesi. Prendendo in esame il cosiddetto costo medio all’emissione dei titoli di Stato si è passati dallo 0,10% del 2021 all’1,71% del 2022 per poi arrivare al più recente e oneroso 3,41% rilevato lo scorso marzo. Estendendo ulteriormente l’analisi a una sintesi maggiormente puntuale sull’effettivo onere oggi in dote alle casse dello Stato italiano, la presa visione dei dati percentuali del Rendistato, identificano ancor di più questa passività. A marzo 2022 il valore complessivo era pari all’1,17% con un’iniziale variazione negativa di -0,20 (rif. «vita residua a 1 anno – 1 anno e 6 mesi) e una quota finale a 2,364% per le scadenze superiori ai 20 anni. (rif. «20 anni e 7 mesi e oltre»). Oggi, a distanza di dodici mesi, l’aggregato mostra un rendimento pari al 3,861% con un range compreso tra un minimo del 3,307% e un massimo a 4,404%.
Sulla base di questa oggettiva e inequivocabile rilevazione suscita in noi qualche perplessità il sopracitato dato sugli interessi passivi che, di fatto, vede una riduzione nonostante l’intero contesto sia, invece, orientato al rialzo.
Non soddisfatti di questa prima risultanza abbiamo voluto riprendere la Nadef in versione rivista e integrata a novembre 2022 e, da quest’ultima, infatti, emerge un valore percentuale diverso per l’anno corrente: 4,1 rispetto all’attuale 3,7.
Ancora insoddisfatti, e ormai spinti da pura e semplice curiosità umana, abbiamo voluto guardarci più a fondo e, attingendo alla più recente documentazione concernente “gli indicatori economici e finanziari 2022” pubblicato lo scorso 8 marzo in sede di Camera dei Deputati, per l’ennesima volta, il facile riscontro si è mostrato ai nostri occhi: 4,1 per il 2023.
Dal punto di vista strettamente finanziario, come dimostrato, questa distonia tra i precedenti dati e quanto riportato nell’attuale Def non trova plausibile giustificazione con il parallelismo relativo alla dinamica dell’andamento dei tassi di interessi.
Un potenziale e unico fattore a sostegno della diminuzione riportata potrebbe risiedere nella dimensione dello stock dei titoli in circolazione (e in scadenza) nel corso di quest’anno ovvero: minor ammontare, minor costo, ma, sempre consultando i previsti documenti a firma del ministero dell’Economia e delle Finanza (rif. “Direzione Debito Pubblico – Scadenze suddivise per anno”), quest’ultimo scenario non può essere minimamente preso in considerazione. Il motivo? Semplice. A marzo 2022 l’ammontare dei titoli in scadenza per il 2023 era pari a 280.573.165.439,41 euro. Oggi, invece, la cifra monstre per l’anno in corso è salita a quota 385.102.333.096,25.
Come si può vedere sono numeri impetuosi. Difficili da immaginare. Difficili nello scrivere i loro stessi importi. Difficili come le tante evidenze che alimentano la nostra (forse) troppo fervida curiosità.
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