Non c’è dubbio. Nel bene o nel male, l’attuale legislatura, 18a dell’era repubblicana, non può che essere assegnata al partito grillino: quello che nel 2018, con quasi il 33% dei suffragi, ha vinto le elezioni e che da allora, tra alti e bassi, tra abbandoni e occupazione del potere, tra galleggiamento e sottili astuzie (da prima Repubblica), sta mettendo alla corda giocolieri politici – sulla carta – ben più quotati.
Non solo la sinistra, ma anche i sovranisti di destra: quelli che con eccentrica spavalderia, sicuri di essere seguiti dai grillini che allora avevano in pugno, appena un anno fa, pensavano di liquidare con un mojito l’Esecutivo Conte I e veleggiare trionfalmente verso nuove elezioni, ma che, dopo mesi di urli alla luna, hanno dovuto ammainare tutte le vele (sino ormai a rinunciare persino alla richiesta di elezioni anticipate) in ossequio all’astuzia camaleontica pentastellata.
E come il solleone 2019 non portò troppo consiglio a Matteo Salvini, l’attuale scorcio estivo sta mettendo a nudo, ora dopo ora, il cul de sac nel quale tutta la sinistra si è cacciata. Renzi incluso! La questione è presto detta: quel vincolo di coalizione rosso-gialla sul taglio dei parlamentari, irrinunciabile per i grillini e snobbato dalla segreteria Zingaretti, si sta rivelando un’autentica bomba a cielo aperto per il Pd, il Governo e la corsa al Quirinale.
Non solo. Il voto favorevole del Pd per il referendum confermativo del 20 e 21 settembre risulterebbe un autentico “cazzotto nello stomaco” a Renzi e alla sua riforma costituzionale che prevedeva parimenti una diminuzione dei parlamentari, ma che proprio i suoi ex compagni di partito, oggi costretti a ingoiare la proposta grillina per non far saltare il Governo, avevano affossato.
Al di là dell’appello di insigni costituzionalisti sulla natura del pronunciamento (voto costituzionale e non politico), il voto settembrino è destinato ad avere ripercussioni pesantissime sulla maggioranza, sull’Esecutivo e sugli accordi politici che dovranno condurre sia alle elezioni amministrative della primavera 2021 che al voto sul nuovo Presidente della Repubblica in programma nelle prime settimane del 2022.
Partite che il binomio Grillo-Di Maio ha iniziato a giocare da tempo e che ora arrivano al dunque. Infatti, se il Pd dovesse venir meno ai patti, i 5 Stelle potrebbero ammantarsi di responsabilità, mantenere in piedi il Governo (ponendo veti su ogni provvedimento) e – al tempo dovuto – ritenersi liberi di votare con la destra (ovvero, con Salvini) un nuovo Presidente della Repubblica, gabbando il Nazareno (e Renzi).
Se, al contrario, il Pd dovesse – ufficialmente – rispettare i patti e votare “Sì” al referendum mezzo partito potrebbe non seguire Zingaretti, votare con il centrodestra e sancire una clamorosa sconfitta dalla maggioranza con ripercussioni destabilizzanti sugli equilibri di Governo. Ripercussioni che potrebbero addirittura essere aggravate da una sempre più probabile sconfitta alle elezioni regionali dove i 5 Stelle – nonostante Rousseau – si sono ben guardati da condividere i candidati Presidente.
Ma c’è di più. I 5 Stelle – fiutato il binario morto verso cui si sta dirigendo la segreteria Zingaretti – si sono portati avanti con il lavoro. E in vista della disfatta referendaria e amministrativa del Pd – da consumati professionisti della politica – con un anno di anticipo e dopo aver depositato proprie liste con propri candidati presidenti di regioni e sindaci contrapposti a quelli del Nazareno, hanno offerto a Zingaretti un patto politico per le prossime amministrative a partire dalla convergenza sulla ricandidatura di Virginia Raggi a Sindaco di Roma. Quando si dice la generosità…