Tre anni fa ci stavamo avvicinando alla campagna elettorale che, il 4 marzo 2018, avrebbe incoronato il M5s come primo partito italiano (e non dimentichiamoci che in Parlamento lo è tuttora). In quel periodo, uno dei ritornelli più ricorrenti era: mettiamoli alla prova del governo, questi grillini, perché non c’è modo migliore per dimostrare la loro inettitudine. È un ragionamento che si sta mostrando comprovato dai fatti, visto che l’incapacità dei 5 Stelle nei dossier loro affidati (ultimo, la scuola della ministra Lucia Azzolina) è ormai conclamata. Quello però con cui non si erano fatti i conti riguarda i danni collaterali. Destra e sinistra si erano illusi di poter contenere i 5 Stelle, ma in cambio hanno fatto loro una concessione di cui tutti – dalla Lega al Pd – si stanno pentendo, probabilmente troppo tardi, cioè il taglio dei parlamentari.



Ridurre il numero di parlamentari non è vietato, a patto che vengono ribilanciati tutti i poteri dello Stato: viceversa è un atto di sfiducia verso le Camere. È acqua portata al mulino di chi sostiene che meno siamo meglio stiamo. In questa palude antipolitica i grillini sguazzano a piacere; non così il Pd, che governa con loro e che soltanto il prossimo lunedì 7, a meno di due settimane dall’apertura delle urne, comunicherà il proprio orientamento. Il partito di Zingaretti, la forza politica autoproclamatasi baluardo della Costituzione e garante dell’Europa, il perno della governabilità in Italia, non ha ancora le idee chiare. Il segretario ha vincolato il Sì alla riduzione dei parlamentari all’approvazione di una legge elettorale proporzionale: inizialmente il varo doveva precedere il referendum, poi sarebbe bastata l’approvazione in un ramo del Parlamento, ora pare che ci si accontenterà di incardinare la riforma in Commissione, cosa che è avvenuta ieri. La data del voto in aula non è ancora nota. Ma intanto Zingaretti ha avuto il suo piatto di lenticchie per poter puntellare il governo.



Il Pd si trincera dietro questioni incomprensibili ai più, come la legge elettorale, purché non si parli delle difficoltà nelle regioni: ora si parte da un 4-2 per il centrosinistra e se le opposizioni dovessero aggiudicarsi anche una sola regione in più (a maggior ragione se il 21 settembre finisse 2-4 anziché 3-3) la segreteria Pd andrebbe in crisi.

Ma anche Giuseppe Conte annusa aria di crescente difficoltà. Il premier è sparito dai radar mediatici; dopo la raffica di conferenze stampa notturne e di apparizioni quotidiane per dare i numeri del Covid, dopo avere fatto sfoggio di task force e di stati generali già finiti nel dimenticatoio, Conte ha pensato bene di non mettere più la faccia sui dossier maggiormente scottanti. L’aria di crisi contagia anche lui, oltre che Zingaretti, e il presidente del Consiglio intuisce che il risultato delle regionali potrebbe costare caro a tutto l’esecutivo, non solo al segretario del Pd.



Il problema è che a ottobre, chiuse le urne, al governo toccherà presentare una legge di bilancio difficilissima. E soprattutto bisognerà decidere se tirare avanti, tentare di portare a termine la legislatura o quantomeno provare a scavallare un altro anno fino all’elezione del nuovo capo dello Stato (primi mesi del 2022, con blocco dello scioglimento anticipato delle Camere nell’estate 2021) oppure andare a votare la prossima primavera. La sensazione è che si stiano moltiplicando i cigolii nella maggioranza, e che dunque il voto nel 2021 non sia più una minaccia esorcizzata da tutti ma un’eventualità di cui molti cominciano a soppesare pro e contro.