A ogni polemica a distanza fra Letta e Salvini tutti gli osservatori a vaticinare l’imminente caduta del governo Draghi sotto i colpi dell’irresponsabilità del capo leghista. Ma davvero l’ex numero uno della Bce già rischia di saltare, dopo appena 46 giorni dal giuramento?

A volte le apparenze ingannano. Sono in balia, in questo caso, da un certo storytelling, soprattutto quello messo in campo dal neo segretario dem, che si è scelto Salvini come nemico amatissimo per segnare i confini della propria comunità politica. Anche perché, sembra essere il ragionamento lettiano, se il mio avversario numero uno è il leader del campo avverso, io divento immediatamente il leader del mio campo (con buona pace di Conte e dei 5 Stelle).



I più navigati conoscitori del Palazzo sanno bene che quando si fa un governo di grande coalizione è fondamentale imprimere al nuovo quadro un’inerzia che faccia apparire l’operato dell’esecutivo il più vicino possibile alle proprie istanze. Poco importa se sia davvero così, l’immagine conta moltissimo. Nei casi di Dini e Monti questa operazione è  riuscita bene alla sinistra.



Salvini sembra avere assimilato in pieno la lezione. Entrare nel governo Draghi gli è costato una manovra rapida e spericolata, che ha disorientato parecchi dei suoi. Ma l’operazione l’ha fatta con convinzione: ha colto al volo un attimo favorevole. Passerebbe per pazzo se volesse staccare la spina a un governo dove hanno fatto di tutto per non farlo entrare. Nella fase della formazione dell’esecutivo, infatti, non si contano le provocazioni da sinistra per fargli saltare i nervi.

Ora che Conte non siede più a Palazzo Chigi, che il Pd è ridimensionato e che il Carroccio è tornato nella stanza dei bottoni, serve tempo per riscuotere i frutti della scelta politica di sostenere Draghi. Ecco perché sin dal primo giorno è partito il pressing per orientare a destra la navicella del governo. Un po’ sull’immigrazione, molto sulla questione delle riaperture, che parlano a una rilevante fascia di elettorato moderato in grave difficoltà economiche.



Dal punto di vista dell’immagine un mitragliamento continuo ed efficace, che ha costretto il Pd a giocare di rimessa. E Letta ha dovuto alzare i toni, puntando su temi divisivi e identitari come ius soli e legge Zan anti-omofobia, pur sapendo che nell’ambito di un governo ampio si faranno progressi solo su temi largamente condivisi.

C’è un’evidente corsa a intestarsi i provvedimenti, anche i più neutri e banali. A ben vedere, però, si tratta più di apparenza che di sostanza, dal momento che il pallino del governo rimane saldamente nelle mani del premier. Non a caso proprio Salvini ripete che la Lega lavora “con Draghi e per Draghi”. Poi subito a intestarsi l’assegno unico per i figli e lo spiraglio lasciato dal premier sulle riaperture. Tirare la corda, quindi, ma certo senza avere intenzione di arrivare al punto di rottura.

A un certo grado di instabilità indotta dall’attivismo salviniano forse persino Draghi si dovrà rassegnare. E in astratto un incidente non si può escludere del tutto, visti i precedenti. Ma fino a che nella vera camera di compensazione dei partiti, costituita dal Consiglio dei ministri, vi sarà spazio per un abile mediatore come Giorgetti, difficile immaginare uno stop anticipato. Non è da escludere che il Pd lettiano adotti una strategia di pungolo simmetrica a quella leghista.

Al piano di sopra Draghi che governa, si fa vaccinare e accelera sulle somministrazioni, a quello di sotto i partiti che bisticciano. Si potrebbe andare avanti così per mesi, perché nessuno ha interesse (e forse neppure la forza) per fare saltare il banco. Troppo alto il prezzo da pagare in termine di consensi. Difficile anche immaginare furbate quando ad agosto inizierà il semestre bianco di Mattarella.

Ma nel gennaio prossimo questo delicato equilibrio è destinato a saltare, qualunque sia l’esito della corsa al Quirinale. Essendo fondato su due pilastri, il prestigio di Mattarella unito a quello di Draghi, potrebbe reggere sino al 2023 solo in caso di rielezione dell’attuale inquilino del Colle. Ma il diretto interessato sembra totalmente indisponibile. Lo dice in ogni cerimonia (“questo è il mio ultimo anno”), lo ha ripetuto anche a Benigni, al termine del Dantedì al Quirinale: “C’è un tempo per ogni cosa”. I partiti farebbero bene a prenderlo sul serio.

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