Da martedì, cioè dopodomani, si aprono le danze in Parlamento. La Legge di bilancio comincia il suo percorso in Senato e già spuntano le eccezioni che intendono sovvertire le regole. Si chiamano “interventi correttivi”, di fatto diventano una valanga di emendamenti. I pentastellati si attaccano al superbonus dopo aver ingoiato a fatica la modifica del Reddito di cittadinanza. La stretta per evitare abusi (replicando così quel che è successo per il sostegno sociale) non piace al M5S che per ora abbaia, ma minaccia di mordere. Alla Lega non va giù il rifinanziamento del Reddito di cittadinanza con altri due miliardi di euro (che si aggiungono agli 8,8 miliardi varati lo scorso anno e confermati anche per il 2022). Matteo Salvini ha riaperto anche il fronte fiscale e ha firmato per primo un emendamento che intende introdurre la flat tax per ricavi tra i 65 mila e i 100 mila euro l’anno.
Tutti innalzano vecchie e nuove bandierine come le ha chiamate Mario Draghi, non si sottrae nemmeno il Pd su un terreno scivoloso come la riforma del welfare e i licenziamenti. Insomma, il capo del governo deve affrontare un parlamento balcanizzato che amplia ed esaspera le divisioni esistenti nella maggioranza di governo. Le conseguenze concrete possono diventare molto dannose. Non bisogna mai dimenticare che la pioggia di miliardi da Bruxelles può essere sempre interrotta, anche se i partiti agiscono come se fosse un fatto compiuto. Ma la ricaduta è preoccupante anche sul piano politico. Vediamo perché.
Le manovre per il nuovo presidente della Repubblica sono già uscite allo scoperto. I giornali pubblicano elenchi pressoché completi dei candidati più o meno di bandiera, mentre il convitato di pietra (o di lusso se volete) è senza dubbio Mario Draghi, il quale evita le trappole dei giornalisti, ma non si sbilancia nemmeno con chi gli è più vicino. Così fioriscono due scuole di pensiero come sempre accade quando non sappiamo cosa pensare.
La prima scuola sostiene che Draghi aspira da tempo al Quirinale, ma non vuole essere impallinato com’è avvenuto con Romano Prodi, in sostanza potrebbe sbilanciarsi solo nel momento in cui ci fosse un ampio accordo tra i partiti che formano la maggioranza, in modo da creare una situazione come quella che ha portato all’elezione di Carlo Azeglio Ciampi nel 1999 con i due terzi dei votanti o addirittura la quasi unanimità per Francesco Cossiga nel 1985. Ma come si fa oggi a ipotizzare un consenso tanto vasto, con un Parlamento così tumultuoso, rissoso, attraversato da rivalità personali e non solo politiche (si pensi alle sciabolate tra Enrico Letta e Matteo Renzi), con il M5S pronto a mettere veti e la Lega vogliosa di riscatto? A destra c’è la variabile Silvio Berlusconi (davvero pensa di poter essere eletto o vuole comunque dimostrare di essere l’ago della bilancia?), a sinistra c’è un Pd che, se ascolta Massimo D’Alema, non ha alcuna intenzione di appoggiare Draghi (Letta non si esprime e dice che è troppo presto).
La seconda scuola di pensiero sostiene che Super Mario non intenda affatto salire al Sommo Colle, ma voglia portare a termine il suo lavoro, così difficile e incerto, fino alle elezioni politiche del 2023. Poi si vedrà. Potrebbe persino nascere un Draghi bis o, come è più probabile, il “salvatore dell’euro e della patria” potrebbe essere il candidato ideale per una posizione chiave nell’Unione europea o in qualche importante istituzione internazionale. Anche questa prospettiva, tuttavia, è oscurata dalla balcanizzazione parlamentare. Una Legge di bilancio stravolta, parametri finanziari sconquassati, deficit più ampio e debito più elevato, inutile dire che sarebbe un colpo di coda velenoso per un Governo che finora ha mietuto successi e non solo d’immagine: la crescita del 6,2% e forse anche più è frutto del clima di fiducia e delle aspettative positive, non solo dei sostegni monetari da parte dello Stato.
Bisogna aggiungere – per amor di completezza, non per gufare – che l’attuazione del Pnrr è ancora lontana. Mentre siamo a un mese e mezzo alla fine dell’anno, ci sono riforme da completare e provvedimenti da “mettere a terra”, come si dice, cantieri da aprire, norma da rivedere. Si pensi soltanto alla questione della responsabilità degli amministratori e dei dirigenti pubblici: la riforma della giustizia non ha risolto il problema, come ha denunciato l’Associazione dei comuni. Ci sono poi alcuni ministeri che segnano il passo e non riescono a varare le misure necessarie per avviare i lavori. Daniele Franco ha spiegato che manca circa la metà dei 51 obiettivi da raggiungere entro il 31 dicembre, il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda dei punti di vista.
Tutto ciò vuol dire che la divisione tra i partiti (e anche al loro interno come nella Lega e in parte nello stesso Pd), anzi la frantumazione del Parlamento in gruppi, gruppetti e fazioni, è un problema oggettivo sia per chi fa parte della scuola Draghi al Quirinale sia per chi vuole Draghi solo fino al 2023. In un caso o nell’altro, non è affatto garantito il successo della “operazione Draghi”, cioè un Governo di emergenza che gestisca la ripresa economica e dia il tempo alle forze politiche di riorganizzarsi, chiarire le idee e proporre agli elettori la loro ricetta per l’Italia.
In finanza si dice che l’euforia apre la strada al panico, il più delle volte vale anche per la politica.
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