Adesso l’operazione Mario Draghi a palazzo Chigi è conclusa. Probabilmente era in gestazione da diversi mesi, forse auspicata anche da ambienti esteri, comunque ben accettata da Unione europea e dallo storico alleato atlantico. Nonostante gli “acuti” analisti e osservatori italiani, da Carlo De Benedetti a Romano Prodi, fino ai “fenomeni” de Il Fatto Quotidiano, che ritenevano impossibile la nomina di Draghi, tutto è andato come da tempo molti si aspettavano, con il “pensionamento” anticipato del duo Conte-Casalino, gestori certamente di un anno difficile, ma che con le loro scelte lo hanno reso ancora più difficoltoso.



In pochi giorni, il gradimento di Draghi è salito alle stelle e quello di Conte è sceso, restando ancora nostalgicamente abbastanza su un buon livello solo per il confuso ringraziamento di un Paese che si aggrappava disperatamente ai rappresentanti delle istituzioni, comunque fossero gestite. 

Draghi ha ottenuto una fiducia bulgara e trasversale al Senato e alla Camera. Ha confezionato di fatto due governi: quello che conta nella gestione del Recovery Fund, delle scelte economiche, dello sviluppo e delle prime riforme del Paese, mentre lascia ai rappresentanti dei vari movimenti, che ancora cercano di chiamarsi partiti, aspetti più marginali nell’azione di governo. Probabilmente la sua costruzione nella struttura del Governo non è ancora finita, perché nei suoi discorsi alla Camera e al Senato, alla fine, ha toccato tutti i punti da affrontare, da quello della pandemia e della campagna di vaccinazione, sino al dramma carcerario, al giusto processo sia civile che penale. 



Quasi inaspettatamente, per i soliti acuti osservatori, Draghi ha usato concetti chiari, parole secche ma con linguaggio umile, deferente verso il Parlamento e che in certi momenti è apparso pure commosso. In realtà, il linguaggio pacato e conciso dei grande banchieri è sempre più “pericoloso” quando il tono è cadenzato, basso e quasi gradevole. E anche quando fa richiami patriottici al Risorgimento e all’immediato dopoguerra.

Di fatto Draghi, con i suoi interventi alla Camera e al Senato, ha delineato un’autentica resa dei conti che l’Italia deve affrontare complessivamente, a cominciare dalle stesse scelte condivise da Draghi nei primi anni Novanta, fino alla confusione politica cresciuta negli ultimi trent’anni e unita all’operato negativo di chi ha gestito burocrazia, giustizia, bilancio statale con gli errori attuati nella formazione, nella ricerca e, particolarmente, nella sanità.



È un’impresa tutt’altro che facile quella che deve fare Draghi, ma la strada sembra obbligata. Ha indubbiamente ragione il direttore de Il Sole 24 Ore quando spiegava l’altro ieri che è un’abitudine degli italiani autodenigrarsi e dimenticare, per puro masochismo, che “l’Italia è una grande potenza economica e culturale”, uno degli Stati che ha fondato l’Unione Europea e che quindi ha tutte le possibilità di riprendersi. Ma il senso di realtà impone di prendere atto che il Paese non cresce più dal 2006 e che il sistema politico italiano è andato quasi completamente in tilt. 

In più, non si può dimenticare che l’impianto economico e produttivo industriale è stato gravemente compromesso ancora prima dello scoppio della pandemia, per ragioni esterne ma anche per scelte interne.

Una resa dei conti generale non è da intendersi come una sorta di duello rusticano, ma come una presa di coscienza collettiva che è necessario cambiare strada per uscire dalle difficoltà in cui siamo immersi e che ancora di più ci attendono.

Si diceva che anche Draghi deve fare i conti con se stesso. C’è infatti un Mario Draghi che si coinvolge nelle “privatizzazioni senza liberalizzazione e in odore di svendita” stabilite sul Britannia e che di fatto dimentica gli insegnamenti del suo primo maestro, Federico Caffè, che ammoniva di stare attenti al nuovo verbo economico in voga, perché scambiava “gli uomini con i numeri”. Poi c’è il Draghi che, presidente della Banca centrale europea, interviene salvando euro e anche Italia di fronte a una crisi finanziaria vergognosa nei suoi meccanismi di deregolamentazione attuato dallo stesso mondo della finanza. Infine, c’è il Draghi che riscopre il debito buono, che sembra ritornare in linea con Caffè e Franco Modigliani, gli interpreti più moderni della domanda aggregata di John Maynard Keynes.

Anche se può essere utile, per infondere coraggio, ricordare il 1945 e il dopoguerra, occorre dire che non siamo in quella situazione. In quel momento gli americani ci aiutarono con il Piano Marshall raccomandandoci una politica economica “moderatamente keynesiana”, perché l’Italia aveva già una struttura di economia mista che era sopravvissuta alla guerra.

Nell’attuale situazione, Draghi può combinare, con il suo “Governo ristretto”, un grande piano economico di sostegno pubblico e favorendo nel contempo il rilancio della piccola e media industria internazionalizzata che è sempre stato un fiore all’occhiello dell’ Italia. Ma poi si arriva al dunque. Perché Draghi dovrà necessariamente misurarsi con chi deve non solo ripensare ai suoi errori, ma fare veramente i conti con le capriole di questo ultimo trentennio politico. Draghi ha in fondo il compito di riconsegnare un Paese funzionale a una politica disastrosa, che ha letteralmente frastornato il Paese. È questa politica, questi partiti o movimenti che sono chiamati alla resa dei conti.

Ed è qui che sorgono i dubbi. Che cosa riserva il futuro Partito democratico? Dopo la caduta, via procure, della Prima repubblica, i resti delle due forze che hanno governato in modo consociativo i primi 40 anni della Repubblica sono riusciti a coniugare l’insegnamento di Lenin con il neoliberismo finanziario, il dossettismo con gli insegnamenti di Milton Friedman.

Un tempo queste due forze venivano tenute a bada dagli accordi di Yalta e in Italia, checché se ne dica, dall’ambasciata americana e da quella sovietica. Nessuno tra cattolici e comunisti poteva varcare un certo limite.

Con la caduta del comunismo sovietico si è dato vita, attraverso vari passaggi, a una sorta di ircocervo, che rivendica la tradizione riformista occidentale che ha sempre detestato e da cui si è sempre tenuto lontano. La conversione tardiva ha creato più confusione che chiarezza e, al momento, i nuovi strateghi Bettini e Zingaretti pensano a una tenuta elettorale un cartello comune elettorale, “intergruppo” con i Cinquestelle e Leu. Ma non sarebbe più serio definire le ragioni dell’esistenza di un partito attraverso un congresso fondativo, che stabilisca nuovi valori e progetti in base all’interpretazione del mondo dei prossimi anni?

Poi ci sono i Cinquestelle, creati da un comico e animati da pregiudizi, da stereotipi, da visioni complottistiche. È un partito che si divide continuamente, che è diventato l’alfiere di un autentico prototipo di anti-politica, causata principalmente dalla famosa scelta di austerità che un economista come Paul Krugman, un premio Nobel, riteneva demenziale in tempi di deflazione. Quanti partiti nasceranno dall’implosione di questi mesi dei Cinquestelle e quali destino può avere l’elettorato che ha alimentato la fortuna di questo movimento estemporaneo che si richiama addirittura alla democrazia diretta?

Lasciamo stare i piccoli gruppi, spesso testimonianza di una politica che è stata travolta dagli avvenimenti.

Se alla sinistra immaginaria di oggi, si passa alla destra, non si trova certo molto di meglio e anche qui la resa dei conti è tutta da fare. Forza Italia sconta certamente alcune sconcertanti decisioni della magistratura, ma chi non ricorda i tentennamenti continui, le alleanze sbagliate del cavalier Berlusconi sulle riforme possibili quando era al governo? Poi la Lega, guidata da un segretario che ha trasformato “la questione settentrionale” sollevata giustamente da Umberto Bossi, talvolta in modo folkloristico, in un ricordo senza senso e solo a caccia di consensi. Infine Fratelli d’Italia, partito bloccato da un’opposizione definita costruttiva, che pensa anche lui solo ai futuri consensi.

In questo panorama sconcertante, in una crisi democratica galoppante, anche se Mario Draghi traccerà una buona strada, chi raccoglierà, in questo caos politico, i suggerimenti che potrebbero rivelarsi giusti?

E dietro a tutto questo pandemonio, un apparato giudiziario contrassegnato dai Luca Palamara, che hanno condizionato le scelte della Seconda repubblica e i tanti “Palamara” che probabilmente hanno liquidato la Prima repubblica lasciandola solo ai nipotini del comunismo morto e del fascismo sconfitto. Ma anche di fronte a questo non si pensa neppure a una commissione d’inchiesta per paura che emerga anche un solo briciolo di verità

È una strada lunga e difficile quella che deve affrontare Mario Draghi. Anche se l’Italia resta un grande Paese è difficile immaginare che il Premier possa farcela veramente. Occorre solo sperare in questa resa dei conti.

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