La passione di Massimo D’Alema per vini e consulenze non deve essere poi tanto inglobante. Tra un calice ed una due diligence resta il capo indiscusso della più granitica e consolidata coorte della politica moderna: i dalemiani. Progenie che ha generato tanti epigoni, emulatori e accoliti.
Tutti protesi verso una sinistra dialogante ma massimalista, ambientalista ma sviluppista, statalista ma capitalista. Grandi esperti della dialettica aristotelica, usano la loro abilità per essere ovunque serve a loro. Dentro il Pd, fuori dal Pd, accanto a Conte, con Letta, o chi chiunque possa offrire ciò che meritano: uno spazio garantito in cui proliferare e gestire. Avvezzi alla logica del “meglio un rosso che un tecnico”, secondo gli insegnamenti di Mao, si tirano l’uno con l’altro, si supportano, si alleano e si giustificano. Tutti devoti al culto di Massimo. Il quale dalla fazenda umbra gestisce le vigne, propone le sue consulenze in videocall mentre riceve nella sua fondazione i devoti al culto.
È tra quelle stanze che la strategia di avvicinamento al Pd ha trovato nella Schlein il punto di aggancio. La giovane promessa, furbamente, ha compreso che un pezzo di partito era pronto a darle una mano in cambio di uno spazio garantito in cui riprodursi. E così, dopo tanti giri, la giovane promessa emiliana è andata a dama, sperando di portare a casa un po’ di consenso.
Ha sottovalutato le leggi della fisica. Se un corpo minore si avvicina ad un corpo maggiore ne viene attratto e intrappolato. E così era, è, e resta la candidata di D’Alema.
Il che fa riflettere. Lei, protogrillina, che apre le porte ad uno dei consiglieri più ascoltati da Conte. Quasi che fosse il grimaldello per aprire le porte del Pd ad un accordo più strutturale con Conte. Ma questa lettura è in realtà superficiale. I dalemiani non agognano a fare da pontieri, la loro vera natura impone di prendere la leadership e il dialogo con Conte serve come strumento per legittimarsi nel Pd come gli unici in grado di portare a casa l’alleanza assumendo, così, un ruolo di primogenitura politica che va oltre il loro auspicato ritorno a casa. Una corrente dialogante interna e coesa che si porrà come guida (anche se di minoranza) del partito. Questo è il vero obiettivo. Non tornare a casa, ma prendersene una in cui spadroneggiare nei prossimi anni.
In questo D’Alema è un maestro. Ha utilizzato il dualismo con Prodi per costruire la sua leadership in una coalizione con i cattolici, per poi mettersi a capo di un governo nato coi voti di Prodi. A nessuno venga in mente, in pratica, che Massimo, con i suoi proclami da estraneo al gioco, da riserva finita in tribuna, sia davvero passando i giorni a guardare le viti infreddolite nei campi umbri o a leggere una noiosa relazione su un potenziale affare che non si farà mai. Il fatto stesso che lo si evochi, e che i suoi siano oggetto di discussione misura quanto il dalemismo sia vivo e quanto ancora faccia paura.
In fondo è giusto così. D’Alema è un leader vero, anche se di una minoranza, e non può farsene una colpa se tanti, non tantissimi, lo tengono ancora come punto di riferimento. Più che altro lascia perplessi che la giovane promessa del Pd, l’arrembante promotrice di facce nuove e cose nuove (che siano di sinistra poi lo si vedrà) si veda attaccata addosso l’immagine di strumento di Massimo. Già da questo è evidente che ha un problema. La sua leadership nasce senza qualcosa, senza quel fluido magnetico che incolla le persone alle sedie e le fa credere che in quel momento ci sia una guida. E non conta se dice cose innovative, moderne, o addirittura giuste. Quel fluido chi lo ha lo usa. E mentre Bonaccini ha da sempre chiarito il suo essere una cosa diversa, la Schlein si è illusa di esserlo. In realtà non è altro che una dalemiana di nuova generazione. E potrebbe essere un buon inizio. A patto che Massimo voglia.
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