La gente non è andata a votare i referendum giustizia. Se si guardano le percentuali di voto nelle grandi città o a livello nazionale non si può che rilevare che il quorum non solo non è stato raggiunto, ma neppure è stato sfiorato.
Gli italiani non hanno disertato le urne perché contrari ai contenuti dei quesiti sulla giustizia, ma perché non li hanno ritenuti abbastanza interessanti per alzarsi dalla poltrona ed andare sotto casa a votare. Come dire: lasciateci in pace, soprattutto di domenica. Sì, sono questioni importanti, ma troppo tecniche: se ne occupino i politici. Li paghiamo per questo. Forse diverso sarebbe stato l’esito di queste votazioni se non fossero stati bocciati dalla Corte Costituzionale (ma con motivazioni più che condivisibili) i più attraenti quesiti sull’eutanasia e la liberalizzazione delle droghe leggere.
C’è un dato interessante. Le percentuali dei votanti ai referendum sono buone solo laddove si è votato per le amministrative: quasi tutti i cittadini che hanno votato per il sindaco e il consiglio comunale hanno anche votato per i cinque referendum sulla giustizia ed hanno espresso la loro preferenza, sì o no. Non era scontato. Nessuno obbligava a ritirare tutte le schede, quelle delle amministrative e quelle colorate dei referendum. La scelta di esprimersi anche sui quesiti è stata quindi consapevole. Insomma, si potrebbe concludere, votare i referendum era importante, ma non abbastanza per recarmi appositamente al seggio.
Il non-voto non è stato tanto una manifestazione di dissenso nei confronti dei quesiti referendari, quanto una scelta dettata dalla non comprensione dell’importanza delle questioni sul tappeto. E ciò anche a causa della carenza di informazione che ha caratterizzato il periodo preelettorale. Solo negli ultimi giorni prima del voto televisioni, giornali e grandi mezzi di comunicazione hanno cercato di far comprendere alla gente di cosa si occupassero i diversi temi referendari. I quesiti erano complessi da interpretare, la carenza di informazione e i pochi e tardivi momenti di confronto e dibattito hanno fatto il resto: l’esito che ne è conseguito sono i seggi disertati (seggi, tra l’altro, aperti solo di domenica e non anche di lunedì mattina come da più parti richiesto).
Eppure erano in gioco questioni importanti, princìpi fondamentali del nostro ordinamento: la tutela della libertà personale, l’amministrazione della giustizia e il giusto processo, la presunzione di innocenza. Bisogna farsene una ragione: gli italiani sono sempre meno attratti dagli strumenti di democrazia diretta. Che si tratti di votare i sindaci, i parlamentari o i referendum la partecipazione è in calo, la percentuale dei votanti diminuisce ogni anno sempre più. E ciò nonostante che anche la stima nei confronti dei politici sia in caduta rapida. Insomma siamo tra l’indifferenza e la rassegnazione.
Tuttavia, di questa campagna referendaria resta anche qualche cosa di buono.
Milioni di cittadini sono andati ai seggi, si sono informati sul funzionamento del servizio giustizia, hanno potuto approfondire, discutere e confrontarsi su questioni fino ad oggi poco note. E si sono espressi votando per lo più sì al cambiamento di norme ritenute inique. Molte di queste norme sono già oggetto di discussione in Senato (riforma elezione del Csm, voto degli avvocati nei consigli giudiziari, separazione delle funzioni giudicanti e requirenti dei magistrati) e anche questo può aver frenato la corsa alle urne, ma se alla fine della conta dei voti prevarranno i sì, la riforma Cartabia in discussione da martedì al Senato ne uscirà certo rafforzata.
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