Il successo di Fratelli d’Italia? “Non è un voto di protesta o anti-sistema, piuttosto è un voto di alternativa, come un investimento fatto in Borsa”. Lega e Forza Italia hanno dimezzato i voti perché hanno pagato il fatto di essere stati nel governo Draghi di unità nazionale? “Forza Italia paga la parabola personale del suo fondatore, Silvio Berlusconi, mentre la lega è stata troppo ondivaga”. Il Pd ha perso e il M5s ha vinto? “È solo un’illusione ottica: il Pd ha mantenuto il suo zoccolo duro, invece il M5s ha attuato una parziale rimonta, perché oggi è al 15-16%, ma partiva dal 33% di quattro anni fa: si è quindi ridimensionato notevolmente”.
Così fotografa l’esito del voto Alessandro Amadori, vicedirettore dell’Istituto Piepoli, secondo il quale era infine scontato che “Calenda non potesse fare il botto, visto che tutti i sondaggi lo accreditavano di consensi in un range fa il 6% e l’8%, non certo a due cifre”.
Il grande successo di Fratelli d’Italia può essere catalogato come un voto di protesta?
Non lo vedo come un voto di protesta e sicuramente non è un voto anti-sistema, come poteva essere il “Vaffa” che sta alle origini del Movimento 5 Stelle. A mio avviso, è un voto di alternativa, che è diverso.
Che cosa intende?
Per capirlo, occorre fare un paragone con la Borsa. Se un risparmiatore che ha messo i suoi soldi su un titolo e si accorge che non rende abbastanza, che cosa fa? Disinveste per poi investire su un altro titolo che potrebbe rendere di più. Il voto a Fratelli d’Italia è più all’insegna del Roi (Return on investment), cioè della ricerca di un rendimento sul proprio investimento. Cosa ben diversa dal meccanismo che ha portato la Lega al 34% alle europee del 2019 o il M5s al 33% alle politiche del 2018.
E quale sarebbe questo Roi che gli elettori vanno cercando nel partito della Meloni?
Essenzialmente una maggiore capacità di mettere in ordine un’Italia percepita in via di sfilacciamento.
Il centrodestra ha vinto con il 43-44%, ma accanto alla galoppata di FdI si registrano i voti dimezzati di Lega e Forza Italia. Quindi non si è verificata una crescita di consensi, bensì solo un travaso di elettori fra i tre diversi partiti?
I due macro-bacini, centrodestra e centrosinistra, dal 1860 a oggi rimangono su rapporti di forza reciproci molto stabili, senza mai scossoni radicali. Ma se guardiamo con attenzione i dati elettorali, notiamo che Meloni ha sottratto voti sia all’interno del proprio perimetro, che dal M5s.
Come si spiega questo travaso dal partito di Conte?
Il M5s ha sempre avuto una natura ibrida, è nato proprio dalla confluenza di metà elettorato dal centrodestra e metà elettorato dal centrosinistra. Oggi il partito di Conte è diventato più una formazione di centrosinistra.
Lega e Forza Italia pagano di più il fatto di essere stati nel governo mattarelliano di unità nazionale o la colpa, secondo la vulgata comune, è di aver fatto cadere, assieme al M5s, il governo Draghi?
Nessuna delle due cose. Forza Italia ha una caratteristica intrinseca che ne fa un unicum nel panorama politico italiano: è un partito nato e indissolubilmente legato alla parabola personale del suo fondatore, Silvio Berlusconi. Il declino di FI si muove in parallelo con la visibilità del suo leader: a mano a mano che Berlusconi è meno presente sulla scena politica, Forza Italia perde vivacità e appeal. Ma vorrei ricordare che ancora oggi, sorprendentemente e straordinariamente, una formazione legata a una figura specifica dopo 30 anni dalla sua fondazione riesca ancora a raccogliere un non trascurabile 8%.
E il crollo di Salvini?
La Lega dal 2019 a oggi ha imboccato una strategia troppo ondivaga: prima al governo, poi lo ha fatto cadere, poi ci è tornata con Draghi… Salvini è un personaggio dotato di una straordinaria energia e di una capacità comunicativa fuori dal comune, ma gli elettori hanno bisogno di certezze, di linee, e se vanno fatti dei cambiamenti, non devono mai essere delle inversioni a U. Questo è il motivo che ha portato alla progressiva erosione dei consensi alla Lega: una linea politica di difficile decodificazione.
Il Pd ha perso, ma resta ancorato al suo 18-19%: non cresce, ma neppure decresce. È così?
Sì, è un partito molto stabile. È la teoria dello zoccolo duro di Occhetto. Avendo una gestione più corale, più lenta, il Pd ha quel bacino e quello rimane. Ha perso però forza propulsiva e visione. Ma non è giusto dire che il M5s ha vinto e il Pd ha perso, proprio perché il Pd ha saputo mantenere il suo elettorato tradizionale. Il M5s non ha fatto un grandissimo risultato, è al 15-16% partendo dal 33% di quattro anni fa: si è quindi ridimensionato notevolmente.
Sta di fatto che il M5s, dato agonizzante e in caduta libera, ha messo a segno una bella rimonta. Merito di chi o di che cosa?
Ripeto: ha realizzato una parziale rimonta. Il retroterra culturale che ha animato fin dalle origini il Movimento è fondato sul contatto importante con un pensatore non banale, anzi, come il professor De Masi, grande teorico dell’esistenza, in forma sempre più intensa, nelle società turbo-capitaliste di una forma di nuovo proletariato, che genera nuove masse di povertà relativa. Non è certo il proletariato degli inizi del Novecento né dei primi anni Settanta in Italia, ma è un neo-proletariato a cui qualcuno deve dare una risposta politica. Il M5s ha puntato tutte le sue carte su quest’area crescente di bisogno. Ha recuperato perché nessun altro partito ha sviluppato un’offerta concorrente su questo segmento.
Conte però ha proposto, con una buona dose di furbizia, soluzioni e sussidi ben sapendo che, non vincendo le elezioni, poi non sarebbe stato costretto a mantenere quelle promesse, non crede?
Conte ha centrato un tema che c’è, forte e reale, soprattutto al Sud, e ha intuito che poteva farlo diventare il suo asso nella manica. Un’operazione di furbizia, come dice lei? Non lo so, di certo Conte è stato abile a capire che aveva davanti a sé una prateria che nessun altro stava sfruttando. E quindi ha usato il concetto proprio del marketing di USP (Unique Selling Proposition), dando al suo partito una chiara motivazione per cui votarlo. E la mossa ha funzionato.
La coppia Calenda-Renzi puntava alle due cifre, si è fermata al 7,7%: risultato deludente per il terzo polo?
Ho monitorato tutti i sondaggi da fine giugno a settembre: nessuno dava Azione e Italia Viva oltre la forchetta del 6-8%. Se poi qualche partito o qualche potentato, economico o mediatico, si è messo in testa che il terzo polo facesse sfracelli, era una proiezione totalmente slegata dai dati demoscopici. Il grande centro in Italia non esiste, è una chimera, che vale nel suo complesso tutt’al più intorno al 10% e che in queste elezioni era anche frammentata su più player, da Forza Italia al terzo polo e financo a Impegno civico di Di Maio. Perché Calenda avrebbe dovuto fare il botto?
(Marco Biscella)
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