Le dimensioni della vittoria di Donald Trump hanno suscitato grande sorpresa e grande scorno per i sondaggi che davano un testa a testa. Al di là delle questioni statistiche, è interessante un rilievo fatto dal sondaggista Carlo Buttaroni sul Sussidiario: “Il punto fondamentale è che c’è un’America profonda, che vive soprattutto negli Stati centrali, non diversa dalle periferie italiane, francesi e tedesche, che sfugge un po’ ai radar della politica e anche dei sondaggi”. Il problema non è quindi solo dei sondaggisti, ma principalmente della politica e non riguarda solo gli Stati Uniti.
Il dibattito post-elettorale si è concentrato sul personaggio Trump e la sorpresa, soprattutto per i commentatori dell’area che si autodefinisce progressista, si è colorata di una certa indignazione, del tipo: “Come si fa a votare per uno come Trump!”. Tuttavia, a mio parere, Trump in quanto tale non è il punto principale del discorso aperto dalla sua elezione. The Donald è senza dubbio una figura complessa e imprevedibile, e così lo è il suo programma di governo, ma il punto veramente rilevante è l’emergere prepotente sul palcoscenico della politica statunitense di quella “America profonda” che sfugge ai sondaggi.
Queste elezioni non sono state essenzialmente un confronto, seppure con caratteristiche particolari, tra gli storici partiti statunitensi, né uno scontro tra due protagonisti, uno del tutto particolare e l’altra del tutto “normale”. Abbiamo in realtà assistito a un confronto tra due diverse Americhe: quella che si identifica con il “Deep State”, o lo accetta coscientemente o inconsapevolmente, e la misconosciuta “Deep America”.
Non si tratta di etichette, ma di una descrizione della realtà americana, come scrive dagli States Riro Maniscalco: “Oggi come oggi l’American dream certamente abita più lì che non nel palazzo di cristallo dei democratici, un palazzo senza porte per entrare, senza finestre per guardare, senza ponti per raggiungere. Un palazzo dove risiedono solo persone colte ed intelligenti che si fanno compagnia con le star dello show business. E tutti gli altri? Fuori a guardare?”. Quel “lì” è il Partito Repubblicano, che viene tuttavia giustamente richiamato a prendere coscienza di cosa realmente lo ha portato alla vittoria. Dall’altra parte, ancor più necessario è un profondo riesame all’interno del Partito Democratico, la cui plateale sconfitta è innegabile.
Dalle elezioni, inoltre, emerge come l’appoggio non solo di buona parte dei media, ma anche di molte personalità del mondo dell’informazione e dello spettacolo non abbia avuto un grande effetto di fronte ai bisogni concreti degli elettori dell’America profonda e delle loro famiglie. Bisogni non solo economici, ma che emergono anche da una visione della società ben diversa da quella propinata dalla cultura woke e dal politicamente corretto. Dai circoli elitari il voto è stato definito “di pancia”, ovviamente, essendo il cervello di loro esclusiva proprietà. Non vi è dubbio che queste cosiddette élite abbiano la pancia piena, ma viene da pensare che anche il loro cervello sia pieno, ma di idee preconcette con scarsi contatti con la realtà, quella vera, non costruita a propria immagine.
Come già detto all’inizio, è uno scenario questo che si ritrova in diversi Paesi europei, vista la progressiva avanzata nelle elezioni di partiti “populisti”. Partiti che spesso finiscono per essere additati come neofascisti o neonazisti, perciò messi aprioristicamente all’indice. Interessante è però l’uso del termine “populista”, declinazione negativa di popolare, cioè di quel popolo che dovrebbe essere essenza e protagonista di un sistema democratico. Non si possono purtroppo escludere del tutto derive realmente populiste, in senso negativo, o perfino di tipo totalitario; un rischio, peraltro, del tutto ignorato se riguarda la sinistra estrema.
È quindi fondamentale porsi la domanda di cosa è alla base di queste scelte di una parte del popolo “sovrano”, determinante nel caso di Trump, e magari nonostante lui. Una domanda che sembra essere impossibile per chi sta nel “palazzo di cristallo”, che preferisce considerare strumentalmente il suo palazzo come l’unico mondo esistente. Un discorso che riguarda anche la tecnocrazia elitaria che governa l’Unione Europea, sempre più separata dall’Europa dei popoli.
A Bruxelles sono molto preoccupati per un Trump decisamente non propenso a favorire l’UE o, meglio, a considerare l’Europa come un vassallo da sfruttare e, se del caso, neutralizzare. Una politica che risale quantomeno al Premio Nobel per la Pace Obama e che, semplicemente, Trump porta avanti senza troppi paraventi: come è stato detto, “da uomo d’affari”.
Anche nel “palazzo di cristallo” di Bruxelles dovrebbero finalmente chiedersi cosa realmente vogliono gli europei, i cittadini comuni, del popolo, non delle élite autoreferenziali. Una domanda da porsi e a cui rispondere urgentemente, prima che la situazione precipiti. E non servirebbe dare la colpa a Trump.
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