“Vi porterò un Paese sicuro e prospero, lo meritate”. La folla applaude. Dal palco del quartier generale repubblicano di Palm Beach, Donald Trump riassume così il cuore della campagna elettorale appena terminata. “Sarà davvero l’epoca d’oro dell’America”, i suoi sostenitori gridano: “USA, USA!”. Sicurezza ed economia, un messaggio chiaro che ha intercettato molti più cittadini americani rispetto alle tornate elettorali precedenti. Ma non è solo questo.
Dalle elezione emerge un nuovo contorno del Partito repubblicano e del suo elettorato. I personaggi più marcatamente weird – come avrebbero detto i democratici a inizio campagna – che da sempre accompagnano The Donald sono stati la cassa di risonanza del suo messaggio, ma da soli non spiegano i risultati ottenuti. Trump ha spinto sì su economia e immigrazione, ma soprattutto ha riconnesso il voto a un universo di “valori”. Certo, valori funzionali alla sua campagna elettorale, cavalcati in modo cinico e opportunista, ma comunque ragioni di principio per cui sceglierlo e recarsi alle urne.
Proprio per questo è riuscito a parlare anche ai giovani (soprattutto maschi), di tutte le componenti etniche, proponendo loro una via di riscatto basata non sull’appartenenza razziale o sociale ma su una riedizione del sogno americano, multietnico e imperialista. Lo ha fatto sintonizzandosi con i loro strumenti di comunicazione: non più l’uso solo dei media tradizionali (in fondo già tutti conoscono Donald Trump), lasciati spesso al vice J.D. Vance, ma l’utilizzo strategico di podcast e influencer che sono arrivati capillarmente a moltitudini di individui membri di community sempre più isolate e nucleari. Trump ha dato una ragione di senso alle famiglie per votarlo, facendole ripensare come nucleo sociale fondamentale, anche in aperta polemica con la deriva della cultura woke ricondotte al Partito democratico.
A Kamala Harris invece il suo partito ha affidato una missione impossibile: distanziarsi dall’amministrazione in carica di cui però lei è formalmente l’incarnazione. Una contraddizione troppo grande alla base della sua candidatura. Inoltre, i democratici hanno commesso un errore di fondo nell’ordine delle priorità trasmesse, anteponendo nella narrazione di questa elezione i diritti civili (percepiti come questioni da “ricchi” o di pochi nella società americana) ai diritti sociali (lavoro, previdenza, assistenza, famiglia, comunità di “valori” e in certi casi di legami di sangue). Come se queste due libertà non siano più in grado di convivere in una proposta di vita democratica organica, ma siano in alternativa. Forse, si è provato a dare spazio a questi valori “sociali” scegliendo Tim Walz come vice, in virtù del suo retroterra. Tentativo che però non ha funzionato.
Del resto, il voto non si è giocato solo sul terreno dei dati economici. Infatti Biden è stato un ottimo amministratore pubblico sul fronte interno. Ha riportato una solidità per niente scontata, ha investito sulle infrastrutture pubbliche e (anche se poco) sul welfare. La macchina della campagna dem, al netto di tutto, ha retto. Lo dimostra il fatto che negli Stati dove gli investimenti sono stati maggiori il distacco da Trump è risultato minore rispetto al resto del Paese. Dove si è pensato che la storica appartenenza al partito tenesse, si sono registrate le perdite maggiori. Forse anche perché non si è voluto affrontare un punto cruciale: un partito non può essere solo la somma delle sue identità e dei gruppi di interesse. E in questi anni il Partito democratico, ma anche gran parte della sinistra europea, si è sbilanciato esattamente su quel modello, smarrendosi tra le presunte priorità dei propri segmenti interni (donne, afroamericani, latinos…). Sbilanciati nella presunzione di pensare che ad un determinato gruppo possano interessare solo determinati temi. Ad esempio, incentrare il messaggio per le donne solo sulla “libertà riproduttiva” è stata una scelta riduttiva: si dovrebbe parlare anche di “libertà riproduttiva”. In altri termini, è mancata una visione di Paese convincente e dove tutti si possano identificare.
La narrazione trumpiana, invece, ha cambiato passo, con un salto di qualità dal populismo general-generico del 2016 alla definizione di un archetipo di uomo, di cittadino americano, di leader, fondato sui valori. Questo movimento di definizione di un modello valoriale sta attraversando tutto l’atlante geografico. Una destra più tradizionalista e identitaria trova diversi interpreti in Europa, in Russia, in Israele e in America latina. Un movimento che segue Trump nel metodo (prima populista, oggi turbocapitalista) e nel merito (richiamo di valori in modo radicale ed estremista) e che si appresta a ribaltare le logiche delle relazioni internazionali. Paradossalmente, lasciare la Nato libera da vincoli di principio potrebbe segnare una presa di consapevolezza del nostro continente rispetto al suo ruolo e alla sua proiezione internazionale. Alcuni segnali giungono da pochi isolati politici europei, come Macron e Draghi, ma sembra mancare una consapevolezza continentale. Sarà il frutto buono della presidenza Trump? Chissà, non tutti i mali, in fondo, vengono per nuocere.
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