Gli Stati Uniti si sono tinti di rosso, il colore del Grand Old Party. Ma chi sono gli sconfitti, e quale America ha voluto di nuovo Trump presidente? Potrebbero esserci sorprese il 17 dicembre, quando voteranno i membri del Collegio elettorale scelti dai cittadini? E una curiosità: perché non si vota mai di domenica? Domande che abbiamo girato a un esperto, Marco Respinti, giornalista, traduttore e saggista, Senior Fellow del Russell Kirk Center for Cultural Renewal (Mecosta, Michigan) e autore del saggio Come si USA. Guida (e curiosità) per l’elezione del presidente americano (D’Ettoris Editori, 2024).
Come si può misurare, in sintesi, la vittoria di Donald Trump?
Tutto quello che era possibile vincere, il 5 novembre Donald Trump l’ha vinto. Per l’esattezza ha festeggiato ben cinque volte, e probabilmente ci sarà una sesta. Con un margine molto ampio – 312 delegati a fronte dei 226 della rivale democratica – ha prevalso innanzitutto nel Collegio elettorale, una sorta di Conclave che il 17 dicembre eleggerà ufficialmente l’inquilino della Casa Bianca, con un voto che verrà poi reso pubblico il 6 gennaio 2025. Ha vinto con un notevole margine (non accadeva dal 2004 a un candidato repubblicano) anche nel voto popolare, quello espresso dai cittadini, Stato per Stato, per orientare il Collegio elettorale: quattro milioni di voti più di Kamala Harris, primo in 31 Stati su 50.
Un successo che riguarda anche Senato e probabilmente la Camera.
Il Partito Repubblicano ha anche riconquistato il Senato e quasi certamente terrà la Camera, oltre che aver vinto nella conta dei governatorati che erano in palio: 8 su 11, passando così in vantaggio nel computo totale dei governatori, 27 a 23. Ma ha vinto la sua battaglia soprattutto contro le malelingue, gli uccelli del malaugurio sempre in agguato, le calunnie, lo spietato fuoco di sbarramento del sistema massmediatico (che prosegue anche dopo la vittoria) e i proclami di celebrità assortite, a partire dagli strapagati divi di Hollywood, senza dimenticare i continui tentativi messi in campo per metterlo in difficoltà, compreso il plauso puramente demagogico della stampa estera (a partire da quella italiana) alla candidata dem.
Quale America l’ha votato, mandandolo di nuovo al governo per altri quattro anni?
Trump è stato scelto da tutti gli Stati della Repubblica Federale nelle loro componenti e nelle loro sfaccettature. L’America è un Paese plurale, composito. Del resto, lo sono in buona misura anche tutti gli Stati, presi uno per uno, che compongono l’Unione. Le diverse anime degli Stati Uniti, pur armonizzate in una ratio comune superiore, si sono manifestate votando i delegati. A ogni tornata elettorale la mappa più interessante da studiare è sempre quella che raffigura non solo il voto espresso Stato per Stato, con gli Stati blu (democratici) e gli Stati rossi (repubblicani), ma il voto espresso per contea (o parrocchia, come ancora si dice in Louisiana).
Cosa ci dice questa analisi nel dettaglio?
Lì si colgono meglio le articolazioni della geografia antropologica e politica, per esempio notando che pure negli Stati “rossi” le grandi città restano un bastione democratico, e così nei distretti extraurbani degli Stati “blu” sono maggioranza i repubblicani. È il divario fra gli Stati Uniti dei grandi agglomerati urbani e gli Stati Uniti rurali, laddove, in questo contesto, “rurale” non significa tanto “agricolo” quanto piuttosto riferito alla sterminata provincia nordamericana, lontana dalle dinamiche spersonalizzanti delle megalopoli: insomma la cosiddetta Heartland America, gli Stati Uniti del “cuore pulsante”. Con alle spalle una storia antica quanto la stessa Federazione e che, in momenti fortemente polarizzati come l’ultimo Election Day, torna con forza a riaffacciarsi, a far sentire la sua voce.
Chi ha “dietro” (quali apparati di potere, quale elettorato) il nuovo presidente?
Dietro a Trump si intravede il popolo degli operai disfatti dal volto più oscuro della globalizzazione, del ceto medio in via di estinzione, delle famiglie che ancora un po’ tengono, delle Chiese non smarritesi nelle nebbie della modernità galoppante, dei valori che a fatica resistono e dello spirito americano vero, contro le sirene dello sfascismo morale e politico. È per certi versi anche il popolo delle cose normali e del senso comune, della reazione allo strapotere del politicamente corretto e della cancel culture. Poi c’è pure un pezzo di Silicon Valley, l’istrionico ed enigmatico Elon Musk, certi interessi finanziari di un’altra “parrocchia” rispetto a quelli cari al mondo democratico, un pezzo del capitalismo americano contrapposto a un altro pezzo suo rivale e i cultori del cosiddetto “isolazionismo”, qualsiasi cosa questo termine significhi (in realtà è una espressione plurale, che sottende significati diversi).
Tra i sostenitori di Trump ce ne sono alcuni che hanno idee molto radicali: rappresentano un pericolo?
Dietro Trump ci sono, certo, pure diversi scalmanati massimalisti, e questo può costituire un problema. Se e come le due anime convivranno è la scommessa del prossimo quadriennio. La Harris nel 2017, strumentalizzando una vicenda di immigrazione illegale, gridò retoricamente: “Come osiamo dire Buon Natale?”. Trump, allora al primo mandato, replicò: “Indovinate che c’è? Diremo ancora Buon Natale”. Proprio così, pure ora gli Stati Uniti hanno di nuovo la possibilità di dire “Buon Natale”.
Quali sono i passaggi prima della proclamazione ufficiale?
Le elezioni per la Casa Bianca hanno un iter che dura parecchi mesi. Inizia nella prima metà di gennaio dell’anno in cui si vota, con l’avvio delle primarie, e raggiunge il culmine nell’Election Day – quest’anno il 5 novembre – quando i cittadini, Stato per Stato, votano per formare il Collegio elettorale. La legge fissa poi al martedì che segue il secondo mercoledì di dicembre, quindi sempre fra il 13 e il 19 del mese, il momento in cui gli elettori scelti si radunano per votare finalmente per presidente e vicepresidente. Quest’anno cadrà il 17 dicembre. Non esiste un mandato imperativo; tutto si basa sulla fiducia, perché i delegati eletti potrebbero in teoria votare diversamente dalle intenzioni manifestate, ma in realtà non succede mai.
Perché poi si aspetta ancora fino all’inizio di gennaio?
I voti elettorali così espressi verranno sigillati e trasmessi al Senato federale dove, il 6 gennaio 2025, saranno resi noti alle due Camere del Congresso in seduta congiunta. L’elezione sarà ufficializzata in quell’istante. Infine, il 20 gennaio 2025, il presidente eletto (sino ad allora si chiama così), che ha coabitato con il presidente in carica uscente durante i mesi della transizione di poteri, leva la mano destra e davanti alla “nazione di Stati” e al mondo intero giura di fare l’unica cosa che gli compete: salvaguardare la Costituzione dai nemici interni ed esterni del Paese. Si chiama Inauguration Day ed è fissato sempre al 20 gennaio, a meno che il 20 gennaio sia di domenica: in questo caso il giuramento slitta al lunedì successivo.
Perché le elezioni americane non avvengono mai di domenica, come da noi?
Per prassi inveterata, poi cristallizzata nella legge federale, l’Election Day cade sempre il martedì seguente il primo lunedì di novembre degli anni divisibili per 4, cioè ogni anno bisestile, quindi sempre fra il 2 e l’8 novembre. Venne scelto il martedì per ragioni eminentemente religiose – cosa che oggi stupirebbe – che permangono tuttora. Per gli Stati Uniti giudeo-cristiani, calendarizzare il voto di domenica era infatti impensabile, giacché farlo avrebbe fortemente ostacolato i cittadini che si recavano nelle chiese (non sempre a portata di mano), violando così concretamente l’Emendamento I alla Costituzione che fa della libertà religiosa (e la possibilità di praticarla) il primo diritto anche politico dei cittadini americani. Il mercoledì era altrettanto da escludere perché giorno abitualmente di mercato. Era dunque il martedì a garantire la possibilità di spostarsi il lunedì verso i seggi elettorali, percorrendo le vie di comunicazione non facili di allora, e poi utilizzare il mercoledì per il ritorno, magari fermandosi lungo il tragitto per vendere le merci. Nel 1845 questa norma venne formalizzata, inizialmente solo per le elezioni della Casa Bianca, poi per le altre cariche federali.
Perché proprio il martedì dopo il primo lunedì e non lo stesso lunedì?
Sempre per una preoccupazione religiosa, perché questo evita che la data del voto cada il 1° novembre, Ognissanti, giorno di festa liturgica.
(Vincenzo Sansonetti)
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