“Rule, Britannia! Britannia, rule the waves!” (Britannia, domina le onde!). Dopo la firma dell’accordo sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, è probabile che questa marcia militare, della metà del 700, sarà sempre più suonata e cantata dagli inglesi. Un ritorno al dominio sui mari che hanno caratterizzato la grandezza “imperiale” della Gran Bretagna e uno stacco da quella Ue che suonava come un ostacolo a questo desiderio. Forse, per qualcuno in Uk, all’appartenenza all’Ue si adattava anche la seconda frase dell’inno: “Britons never will be slaves”. (I britannici non saranno mai schiavi). Il futuro dirà se si tratta di un obiettivo concreto o solo di un wishful thinking, un pio desiderio.



La seconda opzione sembra delineata da Claudio Martinelli nella sua intervista al Sussidiario, quando parla di una scommessa che potrebbe risultare antistorica, dati  i cambiamenti geopolitici avvenuti nel frattempo. Ha però senza dubbio ragione quando critica la  posizione di chi esulta per l’uscita dei britannici e pensa che così le cose nell’Ue andranno meglio. Dalla Brexit, anche l’Unione Europea ha da perdere e non solo per quanto riguarda gli aspetti economici, commerciali e finanziari, che dovranno essere verificati cammin facendo. Un danno si è già verificato ed è di aver vanificato quella diffusa narrazione, soprattutto in Italia, di una Unione Europea senza ritorno, la cui messa in discussione significava essere esclusi dalla “Storia”.



La Brexit ha dimostrato che l’Ue non è altro che una serie di trattati firmati da Stati indipendenti che liberamente vi hanno aderito e che altrettanto liberamente possono andarsene. Con tutti i possibili vantaggi e costi che la rescissione di qualsiasi contratto comporta. L’uscita del Regno Unito non viola nessun concetto superiore, come quello di una ipotetica “Europa” assunta come una sorta di principio supremo che, paradossalmente, dovrebbe essere oltretutto gestito da una tecnocrazia autoreferente. Una istituzione dove la rappresentanza diretta dei popoli europei, il Parlamento Europeo, è l’organo con i minori poteri.



Le divisioni all’interno dell’Unione vanno ben al di là del separatismo britannico, si pensi solo alle nostre cronache piene degli scontri tra i Paesi “frugali” e quelli “spendaccioni”. L’Ue sovrabbonda di fiscali regole amministrative e di occhiuti controlli, ma manca persino di una minima politica estera comune, come ci si potrebbe aspettare anche in una semplice alleanza. L’applicazione degli accordi dipende poi dalla forza dei singoli Stati, come dimostra l’isolamento dell’Italia nella questione migranti, o il sostanziale allineamento delle regole ai propri interessi nazionali, normale per Francia e Germania e non solo.

In un precedente articolo avevo indicato come uno dei Paesi più aggressivi verso  gli “spendaccioni”, i Paesi Bassi, avesse un debito aggregato doppio rispetto al nostro. Una sorpresa per chi è abituato a valutare la solidità di uno Stato solo in base al debito pubblico, escludendo quello privato e finanziario. Usando più correttamente il debito aggregato come indice, la classifica degli Stati europei verrebbe sconvolta e non a sfavore dell’Italia. Questo governo e i governi che lo hanno preceduto non si sono mai sognati di porre il problema in sede europea. Sembra che la nostra classe politica si muova ancora all’insegna del vecchio detto “Franza o Spagna pur che se magna”, limitandosi a sostituire Spagna con Alemagna.

Anche la imprescindibilità dall’euro fa parte del bagaglio ideologico dei nostri pasdaran europei: “senza l’euro l’Italia sarebbe morta, fuori dall’euro l’Italia è morta”. Forse per questo non si è data più che tanto attenzione a quanto affermato da un personaggio certamente non di secondo piano, come Klaas Knot, Presidente della Banca Centrale proprio dei Paesi Bassi. In una conferenza dello scorso settembre, Knot ha dichiarato necessario correggere le disparità tra Nord e Sud dell’Europa, affinché la cooperazione europea possa continuare a dare benefici e possa uscire dalla crisi ancora più forte. Nel riaffermare i vantaggi che il mercato comune ha portato a tutti gli Stati membri, ha sottolineato che questi sono stati particolarmente rilevanti per le economie più piccole. In un grafico da lui mostrato, i vantaggi, espressi in euro per famiglia, sono stati per l’Olanda circa il doppio che per l’Italia; per non parlare dei primi in classifica: Lussemburgo e Irlanda.

Knot è poi passato a parlare dell’euro e ha francamente sottolineato come l’introduzione della moneta unica abbia avvantaggiato le economie forti, come quella olandese, a danno di quelle più deboli, citando l’Italia. La causa oggettiva risiede nella diversa produttività delle due economie, facendo notare che il lavoratore medio italiano lavora 300 ore in più all’anno rispetto a quello olandese. Il punto è che l’euro, invece di eliminare le differenze tra economie forti e deboli, le ha accentuate, mettendo a rischio l’esistenza della stessa Unione Europea.  

 Accanto all’invito ai Paesi forti ad aiutare i Paesi deboli, Knot evidenzia la necessità che quest’ultimi diano mano a una serie di riforme fondamentali. Una  vecchia storia, dice, e con notevole ironia cita un proverbio italiano: “se mia nonna avesse le ruote, sarebbe una carriola”. Un detto che invece sarebbe compito della classe politica italiana scrollarsi di dosso una volta per tutte ed effettuare realmente le necessarie riforme, a partire da quelle epocali della pubblica amministrazione e della giustizia. Allora, anche gli italiani potrebbero cantare “We will not be slaves”, ma forse è solo un wishful thinking.