Nella fredda oscurità che precede l’alba, un’impressionante colonna di trenta camion, pesantemente carichi di essenziali forniture alimentari, ha superato un checkpoint israeliano lungo la via Al Rashid. Quest’ultima, fino a qualche mese fa vibrante fulcro di vita quotidiana con i suoi alberghi, sale di festa e venditori ambulanti di gelati, si è trasfigurata in una scena desolatamente distopica nella notte del 29 febbraio. Video girati e condivisi da residenti palestinesi hanno immortalato una realtà straziante: famiglie disperate che frugavano tra le macerie di edifici abbattuti, accendendo fuochi per combattere il gelo e cercare qualcosa da mangiare. In questa drammatica cornice, Amein Abou al Hassan, un uomo di quarant’anni, ha intrapreso un viaggio di due ore a piedi nel tentativo disperato di trovare cibo per la sua famiglia, in un mercato nero dove il prezzo di un semplice sacco di farina ha raggiunto la cifra esorbitante di 500 dollari.



La situazione nel nord della Striscia di Gaza è divenuta critica, con circa 300mila persone che affrontano la fame e si trovano sull’orlo della carestia. Le testimonianze dei funzionari delle Nazioni Unite dipingono un quadro desolante, con madri costrette a utilizzare il mangime per asini per produrre pane e bambini che si alimentano di foglie strappate dagli alberi, individuati nelle loro rare missioni di ricognizione. Con l’ordine pubblico completamente collassato e la polizia palestinese eliminata dai bombardamenti israeliani, giovani disperati vagano per le strade attaccando chiunque trasporti anche il minimo quantitativo di viveri. Alcuni sono mossi dalla fame, altri vedono nell’opportunità del saccheggio un modo per rivendere sul mercato nero.



Il tragico culmine si è verificato all’alba del 29 febbraio, quando la folla attorno ai camion è stata bersaglio di sparatorie, con droni israeliani che sorvolavano la scena. Secondo le autorità sanitarie di Gaza, il bilancio è stato di almeno 118 morti, un dato che ha immediatamente catturato l’attenzione internazionale e sollecitato richieste di indagine da parte di Francia e Germania. Gli Stati Uniti, insieme a Hamas e al governo israeliano, hanno espresso profonda preoccupazione per l’evento, sottolineando come avrebbe potuto compromettere i tentativi di negoziare un cessate il fuoco in vista del Ramadan, cominciato ieri 10 marzo.



L’evento, ampiamente documentato dalle cronache, non è stato che l’ultimo di una serie di tragedie che hanno colpito la popolazione di Gaza, intrappolata tra le maglie della fame e del conflitto. La distribuzione di cibo e medicine è fortemente ostacolata da numerose difficoltà, comprese le restrizioni imposte da Israele all’accesso e alla mobilità all’interno della Striscia.

In questo contesto di disperazione, un altro fenomeno ha attirato l’attenzione: il saccheggio sistematico operato dai soldati israeliani durante le loro incursioni. Questi atti di saccheggio, che spaziano dal furto di oggetti personali a quello di beni di lusso, sono stati documentati e condivisi apertamente dai militari sui social network. Anche se tali azioni hanno suscitato dibattito e critiche, alcuni rappresentanti del clero ebraico hanno cercato di fornire giustificazioni religiose, alimentando così ulteriori controversie. Interviste a soldati rientrati da Gaza rivelano come il fenomeno sia diffuso e tollerato dai comandanti, trasformando la ricerca di “souvenir” tra le macerie in una pratica quasi routinaria.

La tolleranza, se non la complicità, dimostrata dai comandanti verso queste pratiche solleva interrogativi profondi sulle norme etiche e legali che dovrebbero regolare il comportamento delle forze armate in zona di conflitto. Inoltre, l’esposizione pubblica e non critica di tali atti sui media nazionali israeliani e la discussione aperta su piattaforme social indicano un inquietante distacco emotivo dalla realtà del conflitto, oltre a mettere in luce la necessità di un serio esame di coscienza collettivo riguardo alle conseguenze umane della guerra.

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