Il consiglio federale della Lega si è chiuso con Matteo Salvini che ha riaffermato la sua leadership e Giancarlo Giorgetti che è rientrato nei ranghi e ha rinnovato la propria fiducia al segretario. La linea del partito non cambia: sì al governo Draghi, no a una ricollocazione europea verso il Ppe fin quando rimarrà “subalterno alla sinistra” rispetto alla quale la Lega resta alternativa. A metà dicembre si terrà una conferenza programmatica di due giorni “per decidere i binari” ed “esprimere l’idea di Italia che vogliamo”: un appuntamento alla vigilia dell’elezione del nuovo capo dello Stato che rappresenterà anche l’apertura della lunga campagna elettorale per il voto politico del 2023. “Voglio parlare di problemi reali, di tasse e lavoro, di pensioni e crescita”, ha detto Salvini nel summit a porte chiuse, “non di problemi interni”.



Il vertice di ieri è stato presentato come la resa dei conti tra le due Leghe, quella di Salvini e quella di Giorgetti. In realtà, di Lega ce n’è una sola che tiene insieme entrambi. Non c’è una Lega di lotta e una di governo, come vorrebbe Repubblica: i leghisti sono tutti di governo. Salvini come Giorgetti. Del resto l’esecutivo di Mario Draghi non è mai stato messo in discussione e le rimostranze di Salvini fanno il paio con gli strattoni di Pd e 5 Stelle. Com’è giusto che sia, ogni partito fa valere il proprio peso in questa maggioranza di emergenza pandemica. Ma la Lega non è una mina vagante per il cammino di Draghi. E il premier lo sa bene.



La Lega è una sola anche perché tiene insieme due personalità, Salvini e Giorgetti appunto, che sono molto diverse ma hanno tutto l’interesse a restare uniti. Il segretario ha i voti, il ministro no: e già questo basterebbe a spiegare perché quelle di Giorgetti siano piccole fughe in avanti o di lato, ma non veri strappi. Che alla fine rientrano sempre. Il peso elettorale di Giorgetti è al minimo, alle recenti amministrative i suoi candidati erano in campo a Torino e Varese, la sua città, e sono stati entrambi sconfitti. I governatori del Nord sono gente di partito, buoni amministratori che conoscono i problemi dei territori e danno le risposte che la gente chiede: non combattono una battaglia contro il segretario. D’altra parte, Giorgetti ha i “rapporti”, fa comodo a Salvini per tenere il filo diretto con Draghi in questa fase molto delicata in cui le Camere non possono essere sciolte in vista del voto per il Quirinale. Tra Salvini e Giorgetti c’è dunque un matrimonio di interessi, un legame che in politica è spesso molto più duraturo dei vincoli ideologici.



La vera differenza tra i due è costituita dal posizionamento in Europa. Il ministro è favorevole all’ingresso nei popolari, il gruppo storicamente più forte nell’europarlamento. Ma Salvini è restio a entrare nel Ppe proprio nel momento in cui i popolari sono al punto più basso della loro storia, in crisi di credibilità e di leadership. L’addio di Angela Merkel mette in crisi non solo i centristi tedeschi ma tutto il blocco popolare nell’Ue. Il Ppe, che negli ultimi anni ha governato l’Ue con i socialisti alternandosi alla guida della Commissione di Bruxelles e dell’assemblea di Strasburgo, è il partito del rigore, dell’austerità, dei bilanci in ordine a costo di compromettere la crescita dell’economia reale. La ricetta di Salvini è un’altra: costituire una realtà “identitaria e conservatrice” di centrodestra che possa offrire a un Ppe mai così debole un’alternativa all’accordo con i socialisti e la sinistra. Questa è la vera scommessa su cui punta Salvini. Che ci veda giusto, o che ci riesca, resta ancora tutto da vedere.

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