Questa settimana la Legge di bilancio dovrebbe cominciare dal Senato il suo iter parlamentare che dovrà concludersi entro la fine dell’anno. È probabile che non mancheranno discussioni tra i partiti, in particolare riguardo la riduzione delle imposte per la quale sono stati stanziati 8 miliardi.
Per Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, c’è però un punto di questa manovra, che il Premier Draghi ha definito espansiva, che sta passando inosservato e che dovrebbe invece essere oggetto di dibattito: «In un solo anno, infatti, dal 2021 al 2022, si passa da un deficit/Pil del 9,4% a uno del 5,6%. Una riduzione dovuta per la metà circa alla scelta del Governo di rinunciare a risorse di cui il Paese avrebbe disperatamente bisogno per rendere da anemica a sostenuta la nostra crescita. Non si parla di questo ed è un peccato perché sono scelte che qualificano questo esecutivo».
Professore, ha appena parlato di crescita anemica: il 2021 potrebbe però chiudersi con un balzo del Pil superiore al 6%!
E nonostante questo resteremmo il Paese dell’area Ocse peggio performante in termini di recupero del Pil rispetto al periodo pre-Covid. Occorreva una crescita addizionale per recuperare la botta subita dalla nostra economia.
Ha detto anche che circa la metà della riduzione del deficit/Pil tra quest’anno e il prossimo è dovuta a una rinuncia del Governo. Non basta la crescita del Pil a spiegare il miglioramento dei conti pubblici?
Tra il 2021 e il 2022 il deficit è visto in discesa da 167 a 80 miliardi di euro. Contemporaneamente l’indebitamento netto strutturale, che non tiene conto cioè degli effetti del ciclo economico, si riduce dal 7,6% al 5,4% del Pil: un taglio pari a circa 40 miliardi. Tutto questo significa che degli 87 miliardi di deficit in meno, 47 sono dovuti alla ripresa dell’economia e 40 a una scelta del Governo di destinare risorse a ridurre l’indebitamento anziché sostenere l’economia.
Questi 40 miliardi circa di euro da dove arrivano?
Da un lato, da maggiori entrate, dall’altro, da minori spese. Sul primo fronte, visto che di mezzo c’è stata la crisi dovuta al Covid, e visto che l’anno prossimo l’economia tornerà ai livelli pre-pandemia, si può provare a paragonare lo stato della finanza pubblica tra il 2019 e il 2022. Scopriamo così che il totale delle entrate tributarie è stato pari 506 miliardi di euro nel 2019 ed è previsto, considerando anche la riduzione pari a 8 miliardi inserita nella Legge di bilancio, a 530 miliardi nel 2022. Abbiamo quindi circa 25 miliardi di maggiori entrate, non dovuti però a un miglioramento del ciclo economico.
Come si spiega allora questa cifra in più?
Probabilmente questo gettito aggiuntivo a parità di pressione fiscale (visto che tra il 2019 e il 2022 resterà sostanzialmente invariata) dimostra che strumenti come fatturazione elettronica, cashback ed ecobonus possono far uscire dal sommerso alcune attività. Quel che conta ai fini della nostra analisi, comunque, è il fatto che questi 25 miliardi di euro, derivanti da una sana lotta al sommerso, sono stati destinati dal Governo alla riduzione dell’indebitamento in un momento in cui il Paese aveva bisogno di maggior spinta alla crescita.
Dunque abbiamo spiegato da dove arrivano 25 dei 40 miliardi di minor indebitamento. Gli altri 15?
Guardando al lato delle spese, tra il 2021 e il 2022 c’è una riduzione della voce “altri trasferimenti in conto capitale” da 31 a 7 miliardi di euro, che si spiega fondamentalmente con l’eliminazione dei ristori alle attività dovuti alle restrizioni causate dal Covid. In parte quei 24 miliardi vengono usati per altre spese, tra cui assunzioni e stipendi del comparto pubblico, ma si può dire che almeno 15, anziché essere utilizzati per la crescita dell’economia, sono stati indirizzati alla riduzione dell’indebitamento.
Cosa si sarebbe dovuto fare allora di quei 40 miliardi circa che il Governo ha scelto di destinare alla riduzione del deficit?
Andavano utilizzati per investimenti pubblici, anche perché se il loro moltiplicatore è pari a 1 si sarebbero avuti 40 miliardi di Pil in più, equivalenti a circa 2% di crescita.
Come mai, secondo lei, il Governo ha fatto la scelta di utilizzare risorse per ridurre il deficit anziché sostenere la crescita?
La ragione è che tra le condizionalità del Recovery plan italiano ce n’è una di carattere politico molto importante: il rientro dei conti pubblici nei parametri fissati dal Patto di stabilità. Di fatto, l’Italia deve portare il deficit/Pil dal 9,4% del 2021 al 5,6% del 2022 e al 3,3% nel 2024 perché gliel’ha chiesto l’Europa. Bruxelles, quindi, dà con un mano e toglie con l’altra. Dopo una crisi così drammatica come quella dovuta al Covid, l’Ue ha avuto una nuova occasione per riunire tutti i Paesi membri intorno alla stessa bandiera. In parte, l’ha colta con il Recovery fund, ma resta il problema di una politica fiscale molto diversa da quella americana e che non risponde in toto alle esigenze del nostro continente. Riuscire a percepire l’Europa come motore di sviluppo, di tutela, di ripresa, di attenzione a chi soffre maggiormente è praticamente impossibile.
Cosa pensa invece della proposta degli economisti del Mes di portare il rapporto debito/Pil dal 60% al 100%?
Per certi versi mi fa piacere che si cominci a riconoscere che il sadomasochismo può avere un limite. Il vero problema è che per un Paese come il nostro che ha un debito/Pil al 160% parlare di rientro al 100% in un momento in cui si sta uscendo da una crisi gravissima è assolutamente improponibile. Sarebbe come dire a un malato grave che ha appena subito un delicato intervento che anziché alzarsi e tornare a casa a piedi deve alzarsi e camminare fino all’uscita dell’ospedale: rimane un compito improbo. La proposta del Mes può anche funzionare in una fase di espansione economica, ma non risolve il problema dei trattati europei relativo alla mancanza di strumenti per affrontare i momenti di crisi.
Potrebbe sopperire a questa mancanza un Recovery fund reso strutturale come qualcuno ha già proposto?
Potrebbe anche essere una proposta interessante, sempre che sia qualcosa di diverso dall’attuale Recovery fund che, come detto, contiene condizioni che impongono la riduzione del deficit anziché lasciare spazio fiscale per investimenti pubblici che stimolino la crescita.
(Lorenzo Torrisi)
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