L’universalismo (o universalità) è, almeno in teoria, uno dei tre pilastri (gli altri due essendo l’uniformità e l’equità) su cui è stato costruito nel 1978 il Servizio sanitario nazionale (SSN) del nostro Paese. L’universalismo sta ad indicare che le prestazioni sanitarie devono essere erogate a tutta la popolazione perché la salute va intesa “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (Costituzione, art. 32). Perché allora si è aggiunto quel “almeno in teoria” se si tratta di un pilastro del SSN? Perché, come si mostrerà in questo contributo, quando si guarda alla realizzazione pratica di questo principio viene alla mente senza esitazioni l’adagio secondo cui “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”.



Non si tratta qui di voler essere per forza pessimisti, e visto quello che sta succedendo nel mondo ce ne sarebbero anche le ragioni, o di voler cercare il pelo nell’uovo perché solo le cattive notizie fanno audience: bisogna guardare con realismo quello che succede nel SSN e trarne gli insegnamenti che conseguono, anche se questi insegnamenti possono risultare alquanto indigesti. Veniamo allora ai fatti più recenti.



Di universalismo con riferimento alla sanità ormai si parla diffusamente non solo tra gli esperti (esempio: Rapporto OASI) ma anche sui giornali quotidiani, sia quelli di settore (Quotidiano Sanità) che quelli generalisti (Corriere della Sera). Quindi se discutiamo di universalità è perché non c’è solo fumo ma c’è anche dell’arrosto.

Apre le danze la Ragioneria generale dello Stato, non tanto perché si parla di soldi, argomento sempre molto stuzzicante e che attizza la sensibilità di tanti, ma perché il suo termometro restituisce informazioni molto rilevanti per misurare lo stato di salute dell’universalismo. Nel suo rapporto n. 10 del 2023 sul monitoraggio della spesa sanitaria, oltre a dirci come il SSN nel 2022 ha speso circa 130 miliardi di euro, la Ragioneria segnala che a questa cifra vanno aggiunti circa 40 miliardi di spesa cosiddetta “out of pocket”, cioè pagata direttamente dai cittadini per prestazioni erogate sia dentro che fuori il SSN. Di questi circa 40 mld, solamente poco più di 3 mld sono dovuti ai ticket riferiti alle prestazioni ambulatoriali ed ai consumi farmaceutici erogati per il SSN. Questo significa che a fronte di una spesa sanitaria complessiva di circa 170 mld i cittadini italiani hanno contribuito di tasca propria per quasi un quarto (25%).



Questa spesa “out of pocket” ha avuto una contrazione nel 2020 (-11,6% rispetto al 2019), effetto evidente della pandemia da Sars-CoV-2 quando molte attività sanitarie si sono ridotte (si vedano anche i diversi contributi apparsi su queste colonne), ma poi ha ripreso il trend in crescita (nel 2022: +8,3% rispetto al 2021), ed è ragionevole ipotizzare (per via della incompletezza dei sistemi di rilevazione) che i 40,26 miliardi calcolati dalla Ragioneria rappresentino una sottostima della spesa reale complessiva affrontata di tasca propria dagli italiani in tema di sanità.

In termini di composizione della spesa “out of pocket” il peso prevalente, sempre secondo i dati della Ragioneria, riguarda la spesa per visite specialistiche ed interventi ambulatoriali (45,8% del totale), valore che è in linea con quello degli anni precedenti e che per quasi un terzo è costituito dalle prestazioni odontoiatriche.

Dal punto di vista della spesa pro-capite i 40 mld totali dicono che ogni cittadino italiano in media ha speso 682 euro nel 2022, con valori che vanno dai 351 euro della Basilicata e 382 della Calabria agli 852 dell’Emilia-Romagna e 937 della Lombardia. Trattandosi di valori medi e considerando la quantità di persone che non avranno avuto bisogno di prestazioni sanitarie si può facilmente capire a che livelli di spesa di tasca propria si può arrivare per le persone più fragili e maggiormente bisognose di interventi.

La seconda informazione viene dai dati OCSE. A fronte di una spesa sanitaria pubblica (cioè del SSN, pubblico e privato accreditato) che notoriamente per l’Italia si attesta al di sotto della media europea, la spesa sostenuta di tasca propria dai nostri cittadini è invece più alta rispetto alla media continentale: a fronte di un valore per l’Europa che è quasi del 19% della spesa complessiva, in Italia siamo al 25,4%, cioè superiore al valore europeo di circa 30 punti percentuali.

Ed anche in termini di composizione c’è diversità: se in Italia la spesa ambulatoriale out of pocket, odontoiatria compresa, cubava il 45% della spesa di tasca propria, a livello europeo abbiamo un 20% di spesa ambulatoriale ed un 10% di spesa odontoiatrica. Anche la spesa farmaceutica è superiore a quella media europea: 29% vs 24%) mentre è decisamente inferiore quella per residenzialità e semiresidenzialità (11% vs 24%). Con la prudenza con cui devono sempre essere esaminati questi confronti internazionali, è però evidente che nel nostro Paese il cittadino contribuisce di tasca propria in tema di sanità molto di più di quanto faccia il cittadino europeo medio. Non solo, ma questa spesa di tasca propria negli ultimi 6 anni è cresciuta di più del 40%, passando dai circa 28 miliardi del 2016 ai circa 40 del 2022. Sulla stessa lunghezza d’onda è l’ultimo rapporto OASI del Cergas Bocconi a cui si è già fatto riferimento da queste colonne. E gli esempi potrebbero continuare.

Tutti questi dati non dicono per quale motivo il cittadino italiano sceglie di, o si vede costretto a, sborsare 40 miliardi di tasca propria per la sanità (lunghe/corte liste di attesa, maggiore/minore efficacia degli interventi, soddisfazione/insoddisfazione degli utenti) ma rivelano un elemento certo: la disponibilità di molti cittadini a mettere in secondo piano il tema dell’universalismo. Se un italiano su quattro è disposto a pagare con risorse di tasca propria per avere servizi sanitari significa, parafrasando don Milani, che “l’universalismo non è più una virtù” e va ripensato il suo significato come pilastro del SSN. Proposte ci sono (ad esempio si parla già di universalismo selettivo, cioè un universalismo che non copre tutte le attività che attualmente fanno parte dei Livelli essenziali di assistenza) ed è importante che le possibili soluzioni siano frutto di scelte esplicite, di priorità identificate, e non siano il risultato di fenomeni di iniquità, di un razionamento implicito o dettato dal caso o dalla capacità individuale di destreggiarsi nel mare magnum della nostra burocrazia.

Ma allora crolla il SSN? Molte sirene di sventura, soprattutto quando non sono al governo (perché cambiano le maggioranze, si invertono i ruoli degli interpreti, ma il contenuto della recita non cambia: finanziamento insufficiente, poco personale, lunghe liste di attesa), suonano questa musica, ma non è la melodia che riteniamo adeguata. Dopo 45 anni (appena compiuti) è ragionevole che il SSN abbia bisogno di una seria riforma, ed un ripensamento anche sui suoi pilastri: la riflessione sul concetto di universalismo è uno dei primi necessari passaggi.

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