Per l’Italia si avvicina l’appuntamento del Recovery plan. Entro fine mese, infatti, il Governo dovrà presentare il Piano nazionale di ripresa e resilienza a Bruxelles dopo averlo condiviso con il Parlamento. Il Recovery fund, intanto, non solo è “bloccato” dalla Corte costituzionale tedesca, che ne ha fermato il processo di ratifica in Germania, ma, in un documento di lavoro della commissione Industria del Parlamento europeo si evidenzia come abbia “obiettivi molto alti, che sono al limite dell’irrealistico o dell’incompatibile”. Non proprio un giudizio lusinghiero sul piano con cui l’Europa punta per uscire dalla crisi considerando oltretutto che arriva da un’istituzione comunitaria. «Ho letto di questo giudizio e ho visto il passaggio cui si riferisce. Il documento, che è una relazione tecnica, mette in luce un elemento di contraddizione alquanto evidente», ci dice Massimo D’Antoni, Professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena.
Quale?
Al Recovery fund si chiede di essere da un lato una risposta a una situazione emergenziale, dall’altro un’iniziativa che dovrebbe realizzare trasformazioni strutturali di lungo periodo. Il tutto nel rispetto di termini temporali estremamente stringenti, anche da parte di Paesi (qui viene citata l’Italia) che sono indietro nella realizzazione degli impegni assunti in passato. Lo scetticismo degli estensori del rapporto mi pare condivisibile, il piano è stato caricato di aspettative un po’ eccessive, principalmente per motivi politici.
Nell’ultimo Consiglio europeo Draghi ha riproposto gli eurobond. Quasi contemporaneamente la Corte Costituzionale tedesca ha bloccato il processo di ratifica del Recovery fund che aveva avuto già il via libera di Bundesrat e Bundestag. Solo una coincidenza?
Mi sta chiedendo se la decisione della Corte tedesca sia una risposta all’uscita di Draghi? Non credo che ci sia un tale rapporto di causa/effetto. Ma non è nemmeno una coincidenza. La metterei in questo modo: la risposta alla pandemia ha spinto l’Ue in direzione di una condivisione di alcuni interventi di spesa, con la previsione di un’emissione di debito comune. Di fronte alla possibilità che questo passo rappresenti un avvio di unione fiscale di fatto, da una parte c’è chi mette dei paletti richiamandosi ai limiti della propria Costituzione ma anche al fatto che decisioni del genere vanno prese in modo esplicito e non determinate da una politica di “fatti compiuti”. Dall’altra c’è chi, come Draghi, vuole spingere più esplicitamente nella direzione di una vera e propria unione fiscale; il riferimento agli eurobond è vago (ci sono tante varianti della proposta), ma il senso politico è chiaro. Sono linee opposte, ma ci vedo anche un elemento comune nell’intenzione di porre la questione in modo esplicito, metterla sul tavolo.
Secondo un portavoce di Bruxelles, la decisione della Corte costituzionale tedesca non causerà ritardi e il processo di ratifica del Recovery fund da parte di tutti i Paesi membri avverrà comunque entro metà anno. Cosa ne pensa?
Mi pare che ci sia una certa concordia sul fatto che la Corte ha ormai acquisito la competenza tecnica per una risposta celere. Sull’esito mi è difficile rispondere, bisognerebbe chiedere a qualche giurista che sia anche osservatore attento della politica tedesca. Giudicando in base al passato dovremmo concludere che anche in questo caso ci sarà molto rumore ma nessun effetto pratico, ma c’è anche chi invita a non dare troppo per scontato un via libera.
L’Italia è finora l’unico Paese che appare intenzionato a utilizzare tutta la quota dei fondi a prestito del Recovery fund. Sbaglia l’Italia o sbagliano gli altri Paesi?
Continuo a pensare che indebitarsi sui mercati sia preferibile rispetto a indebitarsi con istituzioni internazionali. Queste ultime come creditori hanno inevitabilmente un potere contrattuale diverso, che spesso si concretizza nella capacità di porre condizioni al debitore. Era anche il motivo di fondo per la mia contrarietà al Mes. È vero che l’Ue non è il Mes, ma continuo a credere che l’Italia dovrebbe ridurre al minimo il ricorso a questi prestiti.
Il Recovery fund è stato concepito quasi un anno fa e forse con un’aspettativa diversa sulla durata della pandemia e delle relative ricadute sull’economia. Alle luce anche di quanto messo in campo dagli Usa, il piano europeo andrebbe rivisto o accompagnato da qualche altro intervento?
Gli interventi aggiuntivi li stanno effettuando gli Stati, non vedo francamente la necessità di ulteriori azioni a livello europeo. L’Europa si muove come abbiamo visto con maggiore lentezza e con molti più paletti, mentre la pandemia ha reso necessarie azioni rapide e a tappeto, che sono state effettuate a carico dei bilanci nazionali. Mi pare tuttavia che in questo momento la risposta debba arrivare soprattutto sul versante dell’uscita dalla pandemia. Uscirne prima anche di pochi mesi si tradurrà in un vantaggio enorme in termini economici. Nel confronto con gli Usa o anche solo il Regno Unito, l’Europa rischia di pagare un prezzo elevato per il ritardo nelle vaccinazioni. Dove l’Europa dovrebbe fare di più è nel dotarsi di una più adeguata infrastruttura di ricerca e in capacità di mobilitare rapidamente capacità produttiva nel settore medicale e farmaceutico. L’idea che non serva produrre in proprio perché in un’economia globalizzata puoi sempre acquistare sul mercato ciò che ti serve mi sembra abbia mostrato tutti i suoi limiti.
Torniamo agli eurobond. C’è chi evidenzia che con il Recovery fund sono previste emissioni di titoli da parte dell’Ue, in pratica una forma di eurobond. Cosa ne pensa?
Come accennavo, ci sono molte proposte diverse sotto il titolo “eurobond”. Quando venne introdotta la possibilità di titoli europei per finanziare il Recovery fund ci fu chi stappò lo spumante dicendo: ecco gli eurobond! In realtà le proposte di eurobond avanzate in passato riguardavano il debito esistente e la possibilità di mutualizzarne almeno una parte, cosa che a oggi non è assolutamente prevista. Certo, è del tutto legittimo chiamare eurobond i titoli di debito europei e pensare che questo sia il primo passo nella direzione di una mutualizzazione dello stock di debito esistente. Qui la difficoltà è che i livelli di debito sono molto diversi e non è al momento pensabile che altri Paesi europei siano disposti ad accollarsi il nostro debito. Ma la partita nell’immediato mi sembra riguardare un punto meno ambizioso e tuttavia importante: la natura eccezionale o permanente di queste emissioni. La Germania ha sottolineato in tutti i modi che l’emissione di titoli europei va assolutamente intesa come temporanea, Draghi ha preso una posizione diversa, parlando anche dell’importanza per i mercati finanziari europei di un asset sicuro.
(Lorenzo Torrisi)
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