La depressione, soprattutto se grave, è incompatibile con l’espiazione delle pene in carcere: l’ha definito la prima sezione della Corte di Cassazione penale con la sentenza 9432 emessa ieri. Nel caso in esame secondo la Corte il Tribunale ha sbagliato a non esprimere alcuna valutazione sulle condizioni di salute mentale del detenuto, così come neppure il magistrato di sorveglianza ha mai chiesto verifiche in merito. Valutazioni, tuttavia, necessarie e chiaramente previste dalla legge italiana, e che possono comportare, come nel caso della depressione, la valutazione di misure detentive differenti al carcere (citando esplicitamente i domiciliari), oppure, precisa la Cassazione, il deferimento facoltativo della pena.
Cassazione: “La depressione è incompatibile con il carcere”
Insomma, la Cassazione per la prima volta ha messo nero su bianco (creando un preciso precedente) che chi è affetto da depressione grave non può scontare la sua pena in carcere. L’eccezionalità della sentenza sta nel fatto che il precedente si applica anche nel caso di reati molto pesanti o gravi, come un omicidio. La condizione mentale, tuttavia, deve essere tale da costituire un pericolo per la vita del detenuto o dei compagni di cella e struttura oppure esigere un trattamento sanitario non attuabile in regime carcerario.
Il nocciolo della questione, secondo la Cassazione, è che la depressione e i problemi mentali gravi, unitamente al carcere, possono rappresentare per il detenuto una non necessaria sofferenza aggiuntiva. Questa, chiariscono gli Ermellini, è in contrasto con la finalità stessa della rieducazione che il carcere persegue, oltre che incompatibile con il rispetto della dignità umana e possibile motivo di peggioramento delle condizioni di salute mentale del detenuto. Costringere al carcere un detenuto affetto da depressione o problemi mentali gravi non permetterebbe, sottolinea ancora la Cassazione, di garantirgli una vita dignitosa, elemento fondamentale per le pene carcerarie. Insomma, seppur detenuto, il malato deve essere adeguatamente curato, deferendo la pena carceraria ad un momento successivo all’eventuale guarigione, oppure commutandola in pene meno severe, quali i domiciliari.