Interroga non poco la morte di un neonato, ancora nel grembo materno, avvenuta nei giorni scorsi a Milano. Il grembo in questione era quello di una madre arrestata per un reato per cui era previsto l’ordine di incarcerazione. Una madre che avrebbe trascorso nell’istituto di pena poco più di 24 ore, in attesa che la sua situazione particolare fosse riconosciuta dalle autorità giudiziarie e scattasse il provvedimento di scarcerazione.
Il passaggio in carcere, dunque, era quasi superfluo e – infatti – la Procura di Milano aveva provveduto nel 2016 a emanare una circolare in cui si prescriveva che tale procedura non fosse applicata per le donne in gravidanza o con figli con meno di un anno. Ma, a quanto pare, il vento del populismo ha soffiato fino ai piani alti e – dal momento che le donne arrestate sono nella quasi totalità donne rom accusate di furti – dal 30 maggio un altro provvedimento della Procura ha ripristinato il regime di detenzione restituendo al popolo italiano tutto il valore simbolico della misura.
Poco importa se poi nelle carceri non ci sono le figure adatte all’accudimento di queste situazioni, come i ginecologi, o se una separazione del genere costituisca di fatto una violazione dei diritti dell’infanzia. È necessario che la gente possa saziarsi di questi provvedimenti in modo da poter affermare serenamente che i rom che delinquono sono adeguatamente puniti. Chiaramente è lecito immaginarsi che la Procura abbia altre ragioni per sostenere tali procedure, è auspicabile pensare che non sia tutto riducibile ad un motivo affine all’ideologia imperante nel paese. Un’ideologia che prevede di sposare senza mediazioni le richieste di quella folla che nelle piazze virtuali inveisce e detta, indignata, le proprie regole.
È questa la morale della storia: la rinuncia da parte della giustizia, della politica, del corpo ecclesiale e dei partiti a mettere in campo tutte quelle scelte atte a rielaborare gli istinti di chi urla, tutelati da un corpus di garanzie che non esponga gli attori della vita pubblica al giudizio continuo di una platea senza memoria, storia e attaccata al presente come all’unico tempo su cui misurare la legittimità delle decisioni.
Poco importa che a rimetterci siano vittime innocenti, come appare sia avvenuto in questo caso, o determinazioni importanti per la vita di tutti. Quello che conta è che la folla, adesso, trovi la sua soddisfazione. In questo modo si vive di voglie, si dà corpo ad una società dei consumi che fa dell’istante il suo nutrimento, che fa diventare tutto un prodotto da dissipare, dalla morale alla vita umana, dalla politica all’amore, dalla giustizia alla realtà.
Per fortuna non è tutto così, per fortuna esistono ancora figure che appartengono ad un altro tipo di società, la società del radicamento, che esercitano come scelta morale rivoluzionaria la ragione, la pietà e il silenzio. Sembrano epigoni di figure familiari alla coscienza collettiva mondiale. Eredi ancora più attoniti di quei discepoli che, nel Pretorio di Pilato, ponevano – col loro silenzio e il loro dolore – le fondamenta per un mondo diverso. Mentre la folla, pensando di ottenere la propria vittoria, otteneva soltanto il biasimo della storia. Allora di un Padre che perdeva il proprio Figlio, oggi di una Madre che non potrà neanche guardare negli occhi quello che per ogni genitore è la Promessa di una vita che guarda all’eternità.
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