Ripartire dopo il carcere è doveroso e possibile. Storie di speranza ci sono e raccontano di riscatto e nuove chance, grazie ad un sistema, quello della cultura, che lascia da parte i pregiudizi. In un documentario dal titolo Near Light, realizzato da Niccolò Salvato, racconta la storia di M., giovane arrestato quando aveva appena 18 anni. In carcere, il ragazzo ha frequentato l’università e persino un master in Marketing all’Università Bocconi, trovando lavoro in una grande azienda milanese. L’esempio di M., per quanto possa sembrare fuori dal comune, è in realtà una delle tante storie simili.



Come spiega il Sole 24 Ore, a dirlo è un monitoraggio effettuato dal Cnupp (Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari): nel corso dell’anno accademico, il numero dei detenuti iscritti all’università è stato pari a 1.707, in crescita rispetto agli anni precedenti: nel 2019 erano solo 796. Il 95.8% è rappresentato da uomini e il 4.2% da donne. Gli stranieri rappresentano il 10.4%. L’obiettivo delle associazioni è quello di azzerare la recidiva, offrendo come strumenti proprio formazione e lavoro. I numeri degli iscritti a facoltà universitarie sono in crescita, come abbiamo visto, ma restano ancora bassi: infatti i detenuti totali al momento sono 61.049. A pesare è la scarsa scolarizzazione di base della popolazione detenuta, sottolinea ancora il Sole.



Detenuti studiosi, Università statale di Milano in pole con 159 iscritti

Nonostante il numero ancora basso di detenuti iscritti all’università, possiamo parlare di dati in costante crescita negli ultimi anni. Cresce anche il numero delle università aderenti: nell’ultimo anno sono passate da 37 a 40. In pole c’è l’Università statale di Milano con 159 iscritti, seguita da Torino, Roma Tre, Bicocca di Milano, Catania, Tor Vergata e Siena. Franco Prina, delegato del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Torino e presidente del Cnupp, spiega: “Per i detenuti, l’esperienza dello studio universitario può assumere diversi significati”. Infatti grazie allo studio si può “dare un senso a un’esperienza difficile e particolare”.



Nella cultura in molti trovano “un’opportunità di riflessione sulla propria vita e sulle vicende e condizioni che li hanno portati in carcere, ma anche sul mondo, sulla società, sulle condizioni di vita delle altre persone, sui valori, sui diritti, acquisendo o integrando il proprio capitale culturale”. Spesso, poi, si studia per accrescere l’immagine di sé davanti alla società e ai potenziali datori di lavoro. Si vede dunque lo studio come “un ascensore sociale” in grado di far riscattare la persona dopo l’esperienza carceraria. In prima linea c’è la Bocconi: il prorettore vicario Carlo Salvato spiega che l’apertura dei corsi triennali e master ai detenuti è stata pensata per “incidere nel contesto in cui affondano le nostre radici”.