Nella vulgata corrente vengono definiti nella qualità di tecnici i governi guidati da personalità prestigiose, non elette nel Parlamento, per la finalità di dare continuità alla legislatura, e che subentrano alla manifesta incapacità delle forze politiche parlamentari di promuovere esecutivi sostenuti da solide maggioranze. Il termine tecnico, però, non deve essere equivocato. Questi governi, indipendentemente dalle motivazioni che li hanno originati, devono ottenere la fiducia da parte di un Parlamento che mantiene intatte le sue prerogative e, come tale, destinato a validare politicamente le loro scelte.
I precedenti dei governi “tecnici”, in particolare quelli guidati da Ciampi e Monti, sono il frutto della presa d’atto dello sfarinamento delle alleanze elettorali, e la loro nascita coincide con due drammatiche crisi economiche. Due condizioni che ritroviamo anche nell’attuale congiuntura, aggravata dalla necessità di contrastare gli effetti della pandemia Covid. Condizioni che sono state richiamate nell’appello del Presidente della Repubblica alle forze politiche, per motivare la necessità di offrire un sostegno a nuovo governo guidato dall’ex presidente della Bce Mario Draghi.
Vedremo nei prossimi giorni se l’appello sarà riscontrato positivamente dalle principali forze politiche. Che tra l’altro non hanno nessun titolo nel sostenere la tesi dell’aggiramento della volontà popolare, dato l’ampio utilizzo che hanno fatto della delega ricevuta dall’elettorato per formare due esecutivi di segno opposto. Distanti dai propositi enunciati nel corso della campagna elettorale, e guidati entrambi da una persona non eletta in Parlamento.
Più rilevante è invece l’argomento, utilizzato a man bassa dagli esponenti del M5S e da una parte significativa del centrodestra, che intravede nella ipotesi di un Governo Draghi la riproposizione di una sorta di commissariamento da parte delle Istituzioni europee, operato nel 2011 con l’insediamento dell’esecutivo guidato da Mario Monti. Con esiti che, a loro dire, sono stati fallimentari dal punto di vista economico e devastanti per quello sociale. L’ostilità verso il progetto “tecnocratico” è stato l’elemento dominante, e politicamente vincente, dell’ultima tornata elettorale.
Come ricordato in precedenza, le dinamiche che portano all’attuale crisi, sembrano coincidere con i precedenti governi guidati da Ciampi e da Monti, per la drammaticità delle condizioni economiche e istituzionali. Nella realtà il paragone rischia di essere fuorviante per una serie di ragioni. È mutato il contesto internazionale. L’origine della crisi ha motivazioni non economiche, e le scelte operate in ambito europeo non sono finalizzate ad attivare politiche di ridimensionamento della spesa pubblica, ma, all’opposto, ad ampliare gli interventi pubblici nella direzione di intensificare la ripresa dell’economia. Il vincolo esterno in questo caso non è deprimente ma incentivante.
Sul piano politico l’esperienza del Governo Monti subentra al sostanziale esaurimento delle dinamiche politiche che hanno caratterizzato il ventennio della cosiddetta Seconda Repubblica. Quella attuale è il frutto del fallimento delle politiche populiste che dovevano caratterizzare la terza repubblica, con il Governo giallo-verde, e del successivo puntello offerto dal Pd al M5s con il Conte-bis, per avviare un tentativo di normalizzazione del partito populista per eccellenza.
Bisogna aprire un altro ciclo, e il punto nodale sono gli impegni che saremo chiamati ad assumere in ambito europeo per la gestione di oltre 300 miliardi di euro. È sulla qualità e sull’onorabilità di questi impegni che si giocano: il futuro del nostro Paese, i tempi e l’intensità della ripresa economica, la tenuta dei redditi delle persone e delle famiglie, la sostenibilità del debito pubblico. Quello che verrà messo in campo nei prossimi mesi condizionerà nel bene e nel male gli avvenimenti dei prossimi 5 anni e la formazione delle nuove regole del Patto di stabilità per i Paesi aderenti all’euro, che sono state momentaneamente sospese.
Un’eventuale alternativa all’ipotesi di un Governo Draghi, nell’attuale Parlamento o a seguito di nuove elezioni, dovrebbe soddisfare alcuni requisiti e rispondere a tre quesiti: 1) Sono in grado le attuali coalizioni di assumere e onorare impegni in ambito europeo che vanno oltre l’orizzonte di questa legislatura e che coinvolgono anche le regioni guidate da coalizioni politiche avverse? 2) Sono in grado di aggiornare programmi politici ormai obsoleti con un livello ragionevole di coesione interna? 3) Sono capaci di mettere in campo uomini migliori rispetto all’ex Presidente della Bce per gestire con autorevolezza e credibilità questo percorso?
Per un osservatore esterno dotato di buon senso, le risposte a questi quesiti sono scontate, per le forze politiche no. Perché presuppongono la capacità di ammettere la fine di un ciclo politico, e che comporta in parallelo la messa in discussione dei gruppi dirigenti che lo hanno interpretato. Purtroppo stiamo affrontando la peggiore crisi del nostro Paese con la peggiore classe dirigente della storia della Repubblica. Serve un atto di umiltà, e di spirito di servizio, dei protagonisti. Purtroppo non è merce che abbonda da quelle parti.
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