Quando nel 2017 Ammore e malavita vinse il David di Donatello come miglior film italiano dell’anno, i Manetti Bros. e Rai Cinema devono aver pensato che fosse arrivato il tempo per fare un salto di qualità, portare quel tipo di cinema popolare e un po’ rustico alle vette della serie A, per impostazione e impianto produttivo. Diabolik è il frutto di questo salto di qualità, uno dei film italiani più attesi dell’anno anche perché nasce da un fumetto amatissimo e che per 50 anni, dopo il tentativo di Mario Bava, è stato protetto da adattamenti e trasposizioni video.
Il salto di qualità è evidente soprattutto nelle ambizioni: se nei loro film più riusciti, o nei prodotti tv come l’irresistibile L’ispettore Coliandro, i registi giocavano espressamente con la serie B – nei modi, nei toni, nelle scelte visive – oppure si divertivano a omaggiarla ironicamente, qui vogliono fare sul serio, abbandonare il distacco parodistico e dedicarsi con serietà al fumetto delle sorelle Giussani, scrivendo assieme a Michelangelo La Neve e all’editor del fumetto Michele Gomboli una storia ispirata al numero 3 della serie, L’arresto di Diabolik con in più elementi presi da altre storie.
Il film, così come l’episodio, racconta del primo incontro tra Diabolik (Luca Marinelli) ed Eva Kant (Miriam Leone): il ladro vorrebbe rubarle il famoso diamante rosa, ma una bruciante passione porterà i due ad affrontare il viceministro della giustizia (Alessandro Roja) che corteggia Eva, ma la ricatta, e l’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea) che a Diabolik dà la caccia da sempre.
Il film non cerca di essere al passo coi tempi e nemmeno di titillare le avanguardie artistiche dell’epoca in cui è ambientato (anni ’60, nelle fittizia Clerville, sorta di Svizzera idealizzata), ma vuole riprodurre la nettezza cartesiana delle tavole disegnate, il suo ritmo secco, il suo andamento composto ma preciso, i suoi colori assimilabili al bianco e nero d’epoca, la recitazione quasi estraniata. Filologicamente interessante, e infatti i fan ortodossi paiono gradire, ma viene da chiedersi: perché?
La fedeltà letterale, non solo al testo ma anche a una percezione estetica del fumetto, finisce paradossalmente per corromperne lo spirito: gli albi di Diabolik erano pensati per essere letti rapidamente, dai pendolari in metro o treno, avevano un andamento secco e veloce pur nella cura rarefatta delle tavole; quella rarefazione diventa nel film una dilatazione incomprensibile, che anziché ai noir di Melville sembra voler parodiare il cinema di Antonioni, la catatonia esistenziale dei personaggi che diventa anche fissità formale, l’azione che non coinvolge, la suspense che resta spesso sullo sfondo. Il vero problema però, e ci perdonino i registi, è che la cura tecnica e l’applicazione – le scene di Noemi Marchica, i costumi di Ginevra De Carolis, le musiche di Pivio e Aldo De Scalzi, mentre più di un dubbio lascia la fotografia color “fiction” – sono cose ben diverse dalla mano del regista, dall’oculatezza della messinscena.
È una questione di sguardo e qui, nonostante le intenzioni, è proprio lo sguardo a non elevarsi allo standard che vorrebbe, a non superare il livello film tv (a cui guarderanno con ogni probabilità gli annunciati sequel) da cui i Manetti volevano smarcarsi: l’effetto è quello di chi si impegna allo spasimo per essere serio, ma che trova in questo un effetto ironico non voluto. Non che questo Diabolik sia un film ridicolo, semplicemente non è all’altezza del compito che si era prefissato, dopo una partenza che prometteva bene (il nero, la tensione, la canzone di Manuel Agnelli), resta sempre un passo indietro. E per un ladro come l’uomo in nero è un errore imperdonabile.
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