Potremo definirla una tragedia dell’errore, estremamente contemporanea laddove quella classica invece aveva a che fare con il destino, con il volere degli dei a cui gli uomini cercavano invano di contrapporsi. Diamanti grezzi (Uncut Gems) gioca con questi presupposti – ma anche con una tradizione novecentesca come sottolinea Manassero su FilmTv citando Bellow ed Hemingway – per portare al punto di ebollizione la poetica, l’estetica e il senso del racconto dei fratelli Safdie (Josh e Benny) al secondo lungometraggio, ma già capaci di segnare il cinema contemporaneo, se è vero che hanno portato Netflix ad acquistare il titolo per distribuirlo fuori dal circuito anglosassone.
La tragedia del film è, per dirla con Bertolucci, quella di un uomo ridicolo, Howard Ratner, gioielliere di New York, traffichino e arruffone, convinto di potersela cavare sempre, rischiando nei modi più clamorosi. Quando riesce a mettere le mani su un grosso opale etiope pianifica di venderlo all’asta per 1 milione di dollari, ma i suoi debiti, le cattive frequentazioni e un campione di basket (Kevin Garnett, in un ruolo offerto in principio a Kobe Bryant) renderanno tutto tremendamente difficile.
Assieme allo sceneggiatore Ronald Bronstein, i Safdie partono da presupposti narrativi simili al loro precedente film Good Time (anch’esso disponibile su Netflix) e vi costruiscono sopra un dramma noir in cui le influenze di genere cedono il passo a una narrazione più ampia, complessa, stratificata che ricorda il miglior cinema anni ’70, ma che i registi non ricalcano ma interpretano come un sentimento, un’ispirazione.
A partire per esempio dal lavoro sui dialoghi e sul sonoro, con i dialoghi velocissimi e sovrapposti, il cosiddetto overlapping portato allo stato dell’arte da Altman, che assieme ai suoni e ai rumori del caos circostante riverberano quello del protagonista. Il vero miracolo di Diamanti grezzi è però nel modo in cui tanto la narrazione quanto il senso generale che ne è alla base non nascano da un impostazione classica, romanzesca o drammaturgica, ma sembra che vengano di conseguenza: c’è una situazione iniziale che precipita e il film segue questa cascata, affiancandosi allo spettatore, creando attraverso questa rincorsa alla sopravvivenza l’empatia.
La tensione strisciante del film pare nasca spontanea perché erompe direttamente dal personaggio di Ratner, perché è meticolosamente costruita più con la macchina da presa e i suoi movimenti (cinematografia di Darius Khondji e straordinario lavoro dell’operatore Maceo Bishop) che con gli strumenti classici della suspense, come il montaggio (notevole in ogni caso, firmato da Bronstein e Benny Safdie, ovvero due degli sceneggiatori, a riprova del metodo puramente filmico di raccontare) che fa capolino solo nella scena chiave della partita di basket. Sono i movimenti di macchina a costruire il racconto, è la camera a definire e approfondire i personaggi, a raccontare un mondo ingovernabile in cui provare un po’ di affetto per personaggi stupidi ma mai domi, è la regia a rifuggire da psicologie e forzature per far vibrare quell’universo narrativo: sta qui la bellezza di Diamanti grezzi, che la sera prima degli Oscar ha vinto 3 premi agli Indipendent Spirit Awards, i premi del cinema indipendente.
Tra i quali quello al protagonista, Adam Sandler, di cui il film rappresenta un nuovo rilancio, quasi fosse uno specchio di Ratner dopo tante scelte sbagliate o sfortunate: scritturarlo in un ruolo alla Pacino è un atto di coraggio, ma rendere il film un tour de force intorno alla sua figura è una follia che i fatti hanno ampiamente ripagato.