Domenica 11 aprile è risorto il Tawantinsuyu: in poche parole l’antico Impero Incaico ha ripreso parte della sua forma quel fatidico giorno a causa della contemporaneità di elezioni importanti sia in Perù che in Ecuador e Bolivia, tre Paesi cardine di quell’impero di cui l’arrivo degli spagnoli ha sancito la fine e che è rimpianto in molte zone, specie nella catena andina dove ci sono luoghi in cui si attende ancora l’arrivo dell’Inca da parte dei Quechuas, la sua etnia.
Confesso che molti anni fa (prima metà degli anni ’80) ebbi una folgorazione nel compiere il cammino fino al Machu Picchu, e al mio ritorno decisi di approfondire le mie conoscenze e scoprii una civiltà avanzatissima e ultraradicata nel suo immenso territorio che ho avuto la fortuna di esplorare nella sua totalità. Tanto che, lo ripeto, alcuni attendono ancora l’arrivo del loro re per tornare a vivere epoche di racconti tramandati verbalmente da generazioni.
E domenica il vecchio Impero si è riunito a causa della tornata elettorale di elezioni presidenziali tanto in Ecuador (definitive) che in Perù (primo turno), ma pure di quelle per i Governatori di 4 importanti province in Bolivia: l’attesa era grande anche perché il vento del populismo che, nonostante la catena di fallimenti delle sue politiche, continua a imperversare nel Continente latinoamericano e che sia in Ecuador che in Bolivia ha occupato gli ultimi 15 anni di storia, sembrava al punto di tornare, visto anche il recente risultato delle Presidenziali boliviane che hanno rimesso al potere il Movimento Socialista di cui fece parte Evo Morales, con l’elezione del suo “delfino” Luis Alberto “Lucho” Arce Catacora alla Presidenza.
Invece i risultati hanno clamorosamente smentito quello che un grande latinoamericanista italiano, Maurizio Stefanini, ha giustamente definito “il vento rosa”, visto che nei 3 Paesi andini del Tawantinsuyu si sono imposti candidati liberali o di centrodestra.
Ma andiamo per ordine iniziando dall’Ecuador, dove al secondo turno delle presidenziali il candidato imprenditore Guillermo Lasso ha sorprendentemente vinto il ballottaggio, imponendosi non solo su quello indigeno Yaku Perez, ma anche sull’ex Ministro durante i Governi di Rafael Correa Andres Arauz, presentatosi come il delfino dell’ex Presidente che, ricordiamolo, è stato condannato in contumacia (si trova in Belgio esiliato) a 8 anni di carcere per corruzione.
Lasso succede a Lenin Moreno, che nel 2017 prese il posto di Correa il quale, considerandolo un altro suo delfino, lo fece eleggere dopo i suoi 17 anni di mandati che avevano fatto sorgere il sospetto di una Presidenza “eterna”, vizio che generalmente colpisce i leader populisti anche se (come d’altronde Morales in Bolivia) Correa aveva iniziato il suo mandato con provvedimenti e riforme tanto positive che avevano diminuito sia la povertà che la mortalità infantile nel suo Paese. Ma poi il “virus del potere eterno” lo aveva infettato, aggravato da sospetti di corruzione che poi si sono rivelati esatti e che sono stati portati alla luce proprio dal suo “delfino” che, ironia della sorte, di nome fa Lenin. E che lo hanno costretto alla fuga dal suo Paese.
Moreno aveva altresì iniziato politiche che sconfessavano totalmente il suo “padrino” e puntavano decisamente verso un liberismo netto, quindi è prevedibile che Lasso, che ha nel suo curriculum anche la dirigenza della Coca Cola, continui su questa via, sconfessando completamente un populismo che, pur nei suoi successi iniziali, come detto poc’anzi, si stava mettendo in un autoritarismo e culto della persona assai poco democratico.
E veniamo al Perù, Paese che, pur vivendo una situazione politica davvero confusa negli ultimi due anni con raffiche di dimissioni e processi a ex Presidenti (che hanno portato al suicidio di uno di loro, Alan Garcia), dopo essere stato protagonista di un boom economico che l’ha risollevato e posto come esempio per l’intero Continente, ha votato al maestro di 51 anni Pedro Castillo come candidato che sfiderà il prossimo 6 giugno la candidata del Partito Fuerza Popular, Keiko Fujimori, nel ballottaggio presidenziale.
Politicamente Radicale, quindi di area progressista, Castillo ricorda per molti aspetti proprio quel Fujimori padre che, anche lì sorprendentemente, nel 1990 si impose sullo scrittore Vargas Llosa, di ultradestra, attuando però politiche neoliberali e conservatrici una volta eletto. Ma non solo: si arrivò al punto che il “giapponese” (per le sue origini) dopo 10 anni al potere dovette fuggire in madre patria perché, pure lui, accusato e condannato a 32 anni di carcere non solo per corruzione ma pure per 25 omicidi compiuti dai paramilitari legati ai servizi segreti ai suoi ordini.
Arrestato durante una sua visita in Cile nel 2005, venne incarcerato, poi graziato e infine tornò agli arresti e attualmente sta scontando 13 anni per terminare la sua pena. Proprio mentre la figlia affronta per la terza volta le elezioni presidenziali: oggi dispone del 13% dei voti e quindi il ballottaggio di giugno è ancora una mezza incognita. A metà proprio perché Castillo si dichiara di sinistra, però è contrario all’aborto, al matrimonio ugualitario e all’eutanasia, ergo un personaggio dai connotati politici un po’ enigmatici che potrebbe, come Fujimori padre, costituire un’autentica sorpresa.
E veniamo alla Bolivia, dove dopo la vittoria del candidato Socialista Luis Alberto Arce sembrava tornasse l’ombra di Morales al potere, fatto dimostrato anche dall’arresto dell’ex Presidente ad Interim Jeanine Áñez con le accuse di aver preso il potere con un colpo di Stato. also colossale, anche perché Áñez era subentrata al fuggitivo Morales rispettando la Costituzione ed occupando il mandato, seppur commettendo errori anche clamorosi, portando il Paese alle recenti elezioni democratiche, cosa che di solito non viene attuata da supposti “golpisti”. Qui difatti pare che ci troviamo di fronte a un vero delfino di chi (Evo Morales) in maniera del tutto arbitraria, impose la sua candidatura contravvenendo a un referendum costituzionale, truccò le elezioni del 2019 e infine, dopo aver invitato i militari ad appoggiarlo, ottenutone un netto rifiutò, fuggì in Messico per poi, via un dorato soggiorno in Argentina, tornare nel suo Paese, dove il delfino aveva vinto.
Le elezioni di domenica scorsa, indette per eleggere i Governatori di 4 province importanti della Bolivia (La Paz, Tarija, Chuquisaca y Pando) hanno decretato la sconfitta dei candidati del ;ìMas in tutti i distretti, capitolazione riconosciuta pure da Morales stesso.
Il fatto è di estrema importanza perché significa un cambio di tendenza rispetto alle elezioni e un chiaro segnale di allarme per Arce, cosa che potrebbe provocare un rallentamento di politiche vendicative verso il precedente potere, per tornare su decisioni che rientrino nella piena democrazia.
Come si vede, dopo il chiarissimo esempio del Brasile (pur se enormemente criticato) di Bolsonaro, l’America Latina lancia un altro chiaro segnale al populismo di una supposta sinistra che, in barba al concetto democratico, si autodefinisce Stato al grido di un “Vamos por todos!” (Noi per tutti!) lanciato da Cristina Kirchner molti anni fa e che sembrava riecheggiare anche in altri leader populisti. L’11 aprile il Tawantinsuyu ha chiaramente detto no!
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