La reazione dei mercati alla notizia della rotonda vittoria del kichnerismo alle primarie di domenica 11 agosto, sebbene questo tipo di elezioni non abbiano nessun valore se non quello di selezionare i candidati alla Presidenza dell’Argentina, è stata tale da far crollare il cambio tra peso e dollaro (che ha superato i 60 pesos), aumentare il rischio Paese e far scattare un forte allarme su un Paese che, come mi ha informato un diplomatico di un Paese terzo, “pare voler fare ancora una volta harakiri”.
La cosa che sorprende, e che stranamente nessuna società che si occupa di sondaggi elettorali ha previsto, è la differenza di ben 14 punti tra Macri e Alberto Fernandez, l’uomo “nuovo” del kirchnerismo. Una differenza così ampia da far sorgere dei sospetti sul risultato, dubbi che lo stesso Governo ha diradato confermando la regolarità delle elezioni. Quindi, ci troviamo di fronte a una classe media che ha voltato le spalle al candidato che aveva contribuito ad eleggere nel 2015: come mai?
Più in là delle ragioni già espresse nell’ultimo articolo, c’è da dire che Macri, nelle sue decisioni e nei suoi piani, ha continuato, purtroppo, a non tener conto della realtà odierna di un Paese che già ha difficoltà a compiere cambiamenti radicali. Facciamo un po’ i conti della serva, come si suol dire: l’Argentina ha una popolazione di circa 43 milioni di abitanti, di cui 12 milioni di lavoratori attivi mantengono 19 milioni di persone che fanno parte dell’enorme apparato statale. Ci sono 5,8 milioni di pensionati, 4 milioni di sussidi “universali” per figli e donne incinte, 4 milioni di sussidi a famiglie attivi, 3,6 milioni di impiegati pubblici, 1,4 milioni di pensioni non contributive, 560.000 piani sociali denominati “Progresar”, 120.000 piani sociali “Argentina trabaja”, 96.000 assicurazioni sulla perdita del lavoro e 80.000 piani sociali “Ellas hacen” (dedicati alle donne). Il totale è di 19.656.000: una bomba a orologeria che però i 4 anni di macrismo hanno ingigantito ancor di più, raggiungendo vette da record: questo perché, pur diminuendo il numero degli impiegati statali, è aumentato quello dei sussidi. Le cifre sono state diffuse dall’Istat argentino, chiamato Indec, quindi ufficiali e sono contenute in un documento diffuso dal valente giornalista Jonatan Viale, corrispondente della CNN in spagnolo.
È chiaro che questi dati costituiscono una bomba per due ragioni: primo, perché un Paese con queste cifre non può andare lontano; secondo, perché c’è un solo modo per alimentare tutto ciò, ovvero aumentando i livelli di tassazione e quindi spremendo anche i salari di quei 12 milioni di lavoratori e chiedendo prestiti al mercato internazionale.
Ma tentare di modificare questo treno “metafisico” non è un impresa facile: significa cambiare una società che ha nei poteri politici e sindacali, legati al peronismo principalmente, una mafia fortissima che, se toccata nei propri interessi, può smuovere il Paese. Molti dirigenti sindacali sono dei veri e propri ras che, attraverso incarichi perenni che passano poi di padre in figlio, hanno creato, d’accordo con poteri politici, questo sistema che in pratica, arricchendoli a dismisura, impedisce alla nazione quel progresso economico che le sue ricchezze dovrebbero ergere a essere una potenza mondiale. Ma che, puntualmente, a ogni scoppio del sistema produce anni di crisi che sempre vengono gestite da altri, imponendo sacrifici che però non vengono digeriti e che sempre richiamano al potere coloro che hanno la responsabilità di aver appiccato l’incendio. Questi, poi, dopo aver depauperato le casse di uno Stato tornate a livelli di sicurezza, lasciano ad altri la responsabilità di risolvere la questione: è un circolo vizioso che si ripete da decine di anni e al quale Macri non ha saputo metter mano o ha avuto paura di farlo. Ha sì indagato sulle immense ricchezze di segretari sindacali e promosso le inchieste che hanno portato alla scoperta di una sorta di Tangentopoli locale, un sistema di corruzione che durante il kirchnerismo ha prodotto un danno al Paese valutabile in 35 miliardi di dollari, pari al Pil nazionale.
L’attuale Presidente, con l’aiuto del Fmi e del suo prestito, ha in pratica ricostruito tante infrastrutture necessarie al decollo economico dell’Argentina, come pure dotato di acqua, gas e fogne ampie zone del Paese che non le avevano mai avute: ma il suo “gradualismo” ha messo l’acceleratore su una tassazione altissima, che ha in pratica portato sul lastrico, lo ripetiamo, famiglie della classe lavoratrice ma anche piccole e medie imprese, producendo il voto di protesta che però, invece di puntare su di una alternativa, chiama al potere un’autarchia camuffata da alternativa democratica, essendo composta dagli stessi protagonisti del disastro ereditato da Macri nel 2015.
Ma già Diosdado Cabello, numero due del regime Venezuelano di Nicolas Maduro, ha messo le cose in chiaro: durante una trasmissione televisiva ha avvisato Alberto Fernandez di non illudersi troppo, di “non credere che la gente abbia votato lui. Il popolo ha detto no al neoliberalismo”, facendo poi intendere chiaramente in un ritorno a un passato populista di modello venezuelano. Che è proprio ciò che i mercati non vogliono, il mondo pure, ma gli argentini sì: speriamo che il 27 ottobre ci possa essere una sorpresa migliore di quella di domenica scorsa.
Macri è corso immediatamente ai ripari, dopo lo schiaffo, introducendo misure che allevierebbero una classe media che non ne può più e anche cambiamenti fondamentali nel suo entourage, tra i quali in primis il ministro dell’Economia, Dujovne, e il suo braccio destro e capo Gabinetto Marcos Peña, promotore, tra gli altri voluminosi errori, della tattica elettorale che in pratica ha fatto risorgere un kirchnerismo che dal 2015 al 2017 ha occupato più le cronache giudiziarie che quelle politiche, pensando che un avversario corrotto garantisse una vittoria facile. Sì, ma non in Argentina.