In Argentina la campagna elettorale verso il fatidico 27 ottobre prosegue e, mano a mano che passano i giorni, si chiarisce sempre di più quello che già di misterioso aveva poco o nulla, almeno per chi questo Paese lo vive da anni. Il candidato del kirchnerismo, Alberto Fernandez, che ha usato tutti i mezzi possibili per convincere l’elettorato di non essere il mero “rappresentate” di Cristina Kirchner, ma di avere un’autonomia dall’ex leader accusata (con montagne di fascicoli giudiziari a suo carico) di essere in pratica il capo di una banda dedita alla corruzione, fa cadere ogni giorno di più la sua maschera.



E così mentre il Presidente Mauricio Macri prosegue in una campagna elettorale che molti giudicano disperata (deve recuperare i 14 punti di distacco dal kirchnerismo maturati nel corso delle primarie) e non solo i suoi comizi ottengono un successo di pubblico notevole, ma, come dimostrano i risultati delle elezioni provinciali a Mendoza e Salta, dove il kirchnerismo subisce due disastrose sconfitte, il risultato del 27 non sarà quasi certamente la ripetizione dell’ultima tornata elettorale nel Paese, Alberto Fernandez e il kirchnerismo danno segnali sempre più corposi di un ritorno al passato di un’Argentina che da sempre, almeno negli ultimi 50 anni (con poche eccezioni), non riesce a guardare minimamente al suo futuro e, caso unico al mondo, volge lo sguardo sempre indietro ripetendo, com’è logico, gli stessi errori.



E così Alberto Fernandez si scaglia contro la ministra della Sicurezza, Patricia Bullrich, accusandola in pratica di aver armato una polizia repressiva, ma soprattutto di aver proposto un decreto legge che punisce chi dichiara il falso nelle cause giudiziarie, misura già operante in moltissimi Paesi. La giustizia in Argentina non ha quasi mai brillato per la sua indipendenza: tolti brevi periodi legati ai tentativi di instaurare una Repubblica con uno Stato di diritto (ultimo dei quali sotto la Presidenza di Raul Alfonsin, primo Governo dopo la dittatura) si è sempre prostrata al potere di turno, quando non addirittura confondendosi con esso.



Gli articoli del grande giornalista Italiano Luigi Barzini, che per due anni (1900-1902) inviò cronache da questo “Sud del mondo”, nelle loro descrizioni mandano il lettore in confusione storica perché descrivono una realtà talmente odierna da far sembrare il tempo una variabile secondaria. L’unico elemento che differenzia i suoi racconti è dovuto al fatto che in quegli anni a fare le spese di una giustizia “pret a porter” era di solito l’immigrato, considerato in primis alla stregua di un delinquente e al quale, legalmente, non era garantito altro che un carcere sicuro, a dimostrazione che il racconto agiografico che descrive l’immigrazione in Argentina ha parecchi punti oscuri.

Tornando ai giorni nostri (si fa per dire), Macri ha tentato di imporre una giustizia indipendente e una lotta al crimine organizzato e al narcotraffico, uno dei pilastri del suo programma politico. C’è da dire però che, sebbene abbia raggiunto indiscutibili successi, ha evitato di imporre una svolta decisiva (come in altri campi) basandosi su di una politica di gradualismo, o di piccoli passi, che però si è scontrata con un ostacolo insormontabile con questo metodo: l’instaurazione negli anni di una filosofia definita “zaffaroniana” (dal nome del suo creatore, il giudice ultrakirchnerista, ed ex membro della Corte suprema, Raul Zaffaroni), il cui principio risiede nel considerare il delinquente un prodotto della sua condizione sociale di povertà e quindi non perseguibile se non minimamente. Ma di fatto ponendo chi subisce la violenza non nel ruolo di vittima, bensì in quello di colpevole: principio che, unito a più che sospette cancellazioni o prescrizioni di reati commessi dai politici (principalmente di corruzione) ha di fatto creato la figura del poliziotto o gendarme repressore, sminuendone la funzione di operatore della giustizia. Cosa che ha non solo aumentato a dismisura i crimini e diminuito la sicurezza, ma anche, come conseguenza non secondaria, permesso lo sviluppo esponenziale del narcotraffico trasformando l’Argentina, da Paese con un ruolo secondario, in esportatore e produttore di droghe.

La lotta al crimine organizzato, che ha ottenuto in questi ultimi anni successi notevoli principalmente per merito sia di Bullrich che della Governatrice della Provincia di Buenos Aires Eugenia Vidal (che ha di fatto espulso dalla Polizia 3.000 agenti per corruzione), rischia ora un clamoroso stop nel caso che Alberto Fernandez “de Kirchner” vinca le prossime elezioni: un primo segnale si sta vedendo nelle decisioni della Corte di Giustizia che, a maggioranza composta da giudici peronisti (altro grave errore di Macri), sta iniziando a smantellare la causa che più preme all’ex Governo. Quella della Mani pulite argentina, mettendo i bastoni tra le ruote (ma questo accade da un anno circa) ai magistrati che indagano sul più gigantesco caso di corruzione latinoamericano (e terzo nel mondo).

Ma ad avere il via libera, e quindi a uscire dalle carceri dove molti sono reclusi, da un eventuale ritorno del kirchnerismo al potere non sono solo i politici e gli imprenditori, si assisterebbe a un ritorno al passato totale: le dichiarazioni di Fernandez sull’operato della ministra della Sicurezza costituiscono un segnale veramente inquietante e non solo perché segnerebbero il trionfo di una logica di giustizia metafisica, in gran parte sponsorizzata in Argentina da organizzazioni per i diritti umani costituitesi negli anni ’70 in piena dittatura e che ora agiscono come braccio politico del kirchnerismo. Si assisterebbe alla tanto augurata eliminazione del ministero di Giustizia e alla sua sostituzione con una “Justicia popular” diretta da giudici militanti: già se ne sta avendo un esempio con il caso Santoro che i lettori del Sussidiario conoscono. Una causa creata ad arte per colpire un giornalista di indagine storico e riconosciuto nella sua professionalità non solo in Argentina: ma ora il giudice ultrakirchnerista Ramon Padilla, che ha istruito la causa, ha ricevuto l’appoggio nel suo contestatissimo operato pure da un’organizzazione provinciale per i diritti umani che, senza minimamente ascoltare le ragioni del giornalista, ha in pratica avallato l’operato del giudice in una causa che, è parso chiaro a tutti, è stata creata ad arte per tentare di controbilanciare la Mani Pulite locale. Ma anche un altro pericoloso segnale per il futuro non solo della giustizia, ma della libertà di stampa con un avvertimento chiaro a chi, in caso di conquista del potere, voglia immischiarsi in indagini scomode. Insomma, la nascita di un nuovo codice penale mediatico, come denunciato da diverse associazioni di giornalisti internazionali che si sono occupate del clamoroso caso.