Con un accordo che fino a pochi giorni prima, se non ore, sembrava impossibile, l’Argentina ha evitato (per il momento sia chiaro) il nono default della sua storia raggiungendo un’intesa con tre tra i principali fondi privati (Blackrock, Ashmore e Fidelity) che gestivano gran parte del debito accumulato dal Paese con il Fondo monetario internazionale, circa 65 miliardi di dollari.



Il ministro dell’Economia Martin Guzman (allievo della scuola keynesiana di Stiglitz) ha mano a mano aumentato l’offerta ai creditori fino ad arrivare a un 40% in più di aumento della stessa, cosa che in pratica, a parte come ripetiamo aver evitato il default, non risolve poi di molto le problematiche di un Paese che anche senza pandemia si troverebbe nella disastrosa situazione attuale.



Ma in cosa e soprattutto come si è arrivati a un accordo? Diciamo che l’entusiasmo calcistico con cui a livello di media è stato accolto spiega gran parte di una soluzione molto ma molto simile a quella che nel 2012 permise la restatalizazzione della Compagnia petrolifera Ypf: ceduta negli anni ’90 alla spagnola Repsol, divenne nel 2012 cavallo di battaglia politico in quanto che lo Stato di fatto si appropriò del 51% delle azioni della compagnia… ma successivamente questa manovra di nazionalizzazione (ma si potrebbe tranquillamente affermare di espropriazione) dovette essere per forza ratificata da un accordo con l’ex proprietaria, onde evitare problemi seri a livello internazionale. Il bello è che il suo raggiungimento costò allo Stato argentino la bellezza di 5 miliardi di dollari, ergo più del doppio del valore dell’impresa stessa. Insomma, dietro le quinte del trionfo nazionalpopolare si nascose una manovra che nemmeno il più fanatico liberista avrebbe approvato, con un altro particolare davvero “divertente”. Perché da anni, presagendo il fanatismo populista del Governo di Cristina Kirchner e vedendoselo arrivare, Repsol aveva in pratica interrotto le ricerche petrolifere della compagnia. Bisogna sapere che per trovare il petrolio si spendono cifre da capogiro che poi vengono assorbite dai guadagni quando si scoprono i giacimenti.



La Ypf che ritornò a essere proprietà del popolo era un’azienda che in pratica di petrolio non ne cercava più, accontentandosi di sfruttare quello che già era in produzione: ergo, una volta acquistata a un prezzo fuori mercato, al grande stratega Kicillof non rimase che cercare qualcuno che si occupasse di scoprire nuovi giacimenti, visto che lo Stato già deficitario dell’Argentina non poteva permettersi i capitali necessari all’operazione. E chi si trovò? Nientepopodimeno che la statunitense Chevron, che le ricerche le fa e i giacimenti li trova, ma che pretende di poter esportare i suoi immensi ricavi negli Usa. Alla faccia della nazionalizzazione, visto che ora Ypf produce 5 volte quello che realizzava nel 2011, ma i guadagni vanno verso gli Usa e Repsol se la ride per l’alto prezzo pagato.

Con la manovra del 4 agosto è successo più o meno lo stesso: è stata pagata in pratica la cifra richiesta dai fondi di investimento (se calcoliamo gli interessi che si mangia lo “sconto” dell’ultima proposta Argentina) senza batter ciglio, dopo mesi di “resistenza” sull’accordo in nome del popolo, si capisce. E come per Ypf anche qui si grida al successo come se si fosse vinto una Coppa del Mondo quando invece si è semplicemente ceduto alle richieste dei creditori. Però la favoletta tanto kirchnerista montata ad arte ha funzionato un’altra volta.

Sul come dell’accordo c’è il sentore di un fattore molto importante: il Fmi ha premuto moltissimo per la firma, ma sta dettando anche durissime clausole, che implicano un cambio a 180 gradi della politica interna argentina. Nelle more dell’iniziativa significa una colossale marcia indietro del piano di Cristina Kirchner di portare avanti le sue politiche totalitarie verso la creazione di un altro Venezuela nel Continente, perché qui la via imposta è una sola. Per poter rispettare i pagamenti l’Argentina deve per forza diventare un Paese economicamente produttivo e quindi abbandonare la lotta kirchnerista contro la classe media (che paga la maggior parte delle tasse) e quella produttiva (che fa marciare l’economia).

In pratica un ritorno non solo a un dialogo forte con l’opposizione, ma pure la creazione (finalmente) di un piano economico nazionale che permetta al Paese di riprendersi. Anche perché solo sabato scorso, come i lettori del Sussidiario già sanno, il Presidente Alberto Fernandez, dopo una riunione con un gruppo di infettivologi che ormai dettano le condizioni, ha deciso di estendere la quarantena dura di altre due settimane: ma ormai l’Argentina ha abbondantemente superato Francia e Germania per numero di contagi e questa settimana raggiungerà l’Italia, alla faccia del leitmotiv governativo di proteggere la salute. Mentre il Pil del Paese ha già perso il 20%, record continentale, e davvero non si sa come si potrà affrontare le conseguenze di una quarantena che di intelligente non ha proprio nulla.

Certo, l’accordo raggiunto è un fatto positivo perché per ora allontana il default, ma bisogna vedere le conseguenze dello tsunami anche mondiale Covid-9, che però l’Argentina ha ingigantito nella sua negatività, e anche la reazione dei fondi di investimento minori, che ancora non hanno fatto mettere la parola fine sull’ennesima “Via Crucis” del Paese.