Come sarà l’Argentina del post-Macri, ergo quella di Alberto Fernandez? L’Università Cattolica di Buenos Aires ha diffuso un dato venerdì scorso: il 40,8% della popolazione è in stato di povertà e un bambino su due cresce nell’indigenza. Quasi allo stesso tempo l’ormai ex Presidente Macri ha tenuto il suo primo discorso a reti unificate della sua carriera, facendo un resoconto dei 4 anni di conduzione del Paese nel quale molte delle sue promesse sono state mantenute: ovviamente, però, non ha citato sia quella della povertà zero che della situazione economica. Come pure quella della pioggia di investimenti stranieri che è stata in realtà solo una precipitazione lieve di due gocce, visto che, senza infrastrutture decenti, con tassazioni gigantesche per mantenere uno Stato “Babbo Natale” e con sindacati gestiti spesso in maniera feudale, investire in Argentina equivale a un harakiri finanziario sicuro.
Fatta questa premessa, ossia quella di una situazione socialmente disastrosa (nonostante l’assistenza sociale sotto il Governo di Macri abbia registrato un record di stanziamenti ed elargizioni di sussidi vari), quella economica ne è l’esatta copia. Figlia di un cammino iniziato con eccellenti risultati in quanto a investimenti in infrastrutture e sull’energia (in pratica il Paese con la piena produzione energetica ha risparmiato circa 35 miliardi di dollari di importazioni di gas e petrolio, pur se ne è uno dei maggiori produttori) e anche con l’inizio dello sfruttamento di quella che viene definita la “Patagonia Saudita”, è stata però vittima del tempo e della paura nell’operare quei cambiamenti che sarebbero essenziali allo sviluppo. E anche qui l’aumento delle tasse ha colpito, e duramente, proprio il settore appena citato.
Quando nel 2015 Macri iniziò la sua Presidenza nelle casse della Banca centrale argentina c’erano fondi per 5 miliardi di dollari: foto di un Paese al punto di ripetere il crac Venezuelano. Ora le riserve sono salite a 25 e, se ben utilizzate, potrebbero gradualmente far uscire la nazione dalla bomba sociale che vi si è installata, anche se poi si dovrà decidere con quali risorse sviluppare un’economia degna di questo nome.
Ma dal punto di vista politico la bomba che si annida nel potere con grande pericolo per l’Istituzione sia democratica che repubblicana si chiama Cristina Kirchner, che martedì scorso nell’aula del tribunale di Comodoro PY, dove si stava sviluppando uno dei suoi 11 processi, quello definito “Viabilità”, ha offerto un teatrale discorso in sua difesa che si è trasformato in un’arringa di una violenza inaudita contro le istituzioni. Lanciando messaggi anche nei confronti dell’allora futuro Presidente e sfidando in maniera categorica i Giudici che però, stranamente, non hanno minimamente reagito come in qualsiasi Paese civile avrebbero dovuto fare. Mettendo in chiaro e tondo che il potere in Argentina è lei, rifiutandosi di rispondere alle 156 domande della Corte, dichiarando che casomai era lei che avrebbe dovuto farle a loro.
Tutta la scena però in altri toni si era ripetuta giorni prima quando Lazaro Baez, che una marea di prove hanno dimostrato essere il prestanome dei Kirchner, in una sua dichiarazione dal carcere dove è rinchiuso ha sostenuto, come Cristina, di essere vittima di un gioco politico. In linea con la moda del cosiddetto “lawfare”, che invoca libertà per i prigionieri che, secondo chi sostiene questa tesi, altro non sono che vittime di losche trame politiche alimentate da una stampa in sintonia col potere di turno.
In America Latina il caso Odebrecht, ossia un’impresa costruttrice brasiliana che ha corrotto Governi di diversi Paesi, enumera politici coinvolti di diverse estrazioni partitiche: e lo sono stati attraverso indagini giornalistiche effettuate da squadre di componenti la stampa di diversi Paesi che, attraverso un lavoro minuzioso e professionale, hanno prodotto prove e testimonianze che hanno permesso di incastrare i responsabili di un giro di corruzione di proporzioni notevoli. In Brasile sia questa operazione che il cosiddetto Lava Jato (giro di tangenti che ha avuto inizio da una serie di fatture truccate rinvenute in un lavaggio di auto, da qui il nome) hanno permesso l’arresto e la condanna di politici, anche qui, di estrazione diversa, mettendo a nudo la corruzione generale che ha coinvolto Governo al potere e opposizione. In Argentina le inchieste dei giornalisti hanno permesso la scoperta di 13 anni di corruzione di un potere politico che ha prodotto un danno valutabile, secondo i dati dell’Università di Buenos Aires, in circa 35 miliardi di dollari. Ecco, ora, a causa del lawfare, un ex impiegato di banca che faceva fatica ad arrivare a fine mese e che da un giorno all’altro ha fondato un’impresa di costruzioni che si è magicamente appropriata di tutti i lavori di una provincia della Patagonia feudo della famiglia Kirchner, diventando proprietario di mezza regione, si dichiara, lo ripetiamo, prigioniero politico. Ma anche qui, ci troviamo di fronte a 16.000 fascicoli di prove e una serie di testimoni che si sono dichiarati pentiti a supportarle.
Venerdì il Presidente Alberto Fernandez ha presentato la sua squadra di Governo, dove diversi posti chiave sono appannaggio del kirchnerismo che rischia di controllare un’altra volta il Paese: ormai pure gli Argentini hanno capito quello che il mondo intero, all’indomani della schiacciante vittoria del Frente de Todos nelle primarie di agosto, aveva compreso, facendo reagire i mercati al punto da provocare un movimento inflazionistico molto forte in Argentina. E che si può tradurre in Alberto Fernandez Presidente e Cristina al potere.
Gli scenari che si presentano a questo punto sono molto inquietanti, specie dopo la teatrale apparizione della Kirchner in tribunale. Grazie agli errori e alle paure, Macri nel corso del suo mandato è riuscito nell’impresa di resuscitare personaggi di un governo che sembravano essere dimenticati e pronti a pagare il loro debito con la giustizia di una “Mani pulite” locale. Che pare pronta a trasformarsi in “Una mano lava l’altra” e a trascinare il Paese verso l’ennesima crisi finanziaria a cui è ormai abituato: ma questa volta con l’aggiunta di una istituzionale che potrebbe significare la fine della Repubblica.