Le elezioni primarie argentine, svoltesi domenica, hanno partorito un risultato per molti versi sconcertante: il kirchnerismo e il suo candidato, Alberto Fernandez, hanno conquistato il 47,36% dei voti contro solo il 32,24% del macrismo. Il dato ha superato le aspettative lanciate dalle previsioni, che parlavano di un sostanziale pareggio tra i due movimenti politici (“Frente de Todos” e “Todos por el Cambio”) che hanno in pratica monopolizzato il voto, relegando gli altri candidati a un misero 8,34% dell’economista Roberto Lavagna, mentre il suo collega ultraliberista Luis Espert ha appena superato la soglia di accesso alla tornata elettorale che si svolgerà il 27 di ottobre per occupare la poltrona della Casa Rosada.



Ma non è tutto: in molte province si è votato per le candidature a Governatore e nella Provincia di Buenos Aires l’ultrakirchnerista Axel Kicillof ha ottenuto quasi il 50% dei voti nei confronti della attuale Governatrice, l’efficentissima Maria Eugenia Vidal. Il dato ha dell’incredibile perché Vidal, nei 4 anni di mandato ha non solo sanato il bilancio fallimentare che aveva ricevuto in eredità dal kirchnerismo, ma pure vinto un conflitto con la mafia che si era instaurata nella polizia e costruito condotte fognarie ed elettriche in popolosi quartieri dove nei 13 anni di kirchnerismo questi elementi fondamentali non erano stati nemmeno pensati. A questo si aggiunge il fatto che, nella patagonica provincia di Santa Cruz è stata confermata la contestatissima sorella dell’ex Presidente Nestor Kirchner, Aljcia, con il 60% dei voti nonostante la stessa abbia portato la provincia al fallimento.



Se vogliamo cercare una spiegazione a questa ecatombe elettorale del macrismo, dobbiamo cercarne le ragioni non solo nell’impressionante serie di errori che hanno costellato la sua politica in questi 4 anni (soprattutto la paura di mettere in atto le riforme promesse nei suoi programmi): ce ne sono altre 3 che devono essere tenute in debita considerazione.

In primo luogo la gran parte degli indecisi si sono riconvertiti al kirchnerismo anche perché il voto attuale non comportava, tranne poche elezioni per Governatori di alcune province, nessuna implicazione elettiva presidenziale che, lo ripetiamo, sarà fatta in ottobre e quindi è servito per far arrivare la propria protesta a Macri. Inoltre, c’è da considerare che Cristina Fernandez de Kirchner è rimasta un po’ in disparte in questa campagna elettorale, come consigliato dagli strateghi del movimento populista spagnolo Podemos: si è fatto credere che il suo ex arcinemico Alberto Fernandez, candidatosi a Presidente, rappresentasse un cambio nel kirchnerismo stesso, fatto che ha permesso di avere molti voti in più e soprattutto di nascondere le politiche antirepubblicane del movimento.



Perché a questo punto anche la storia viene a soccorrerci per spiegare i motivi della vittoria attuale: nelle sue gestioni il peronismo ha sempre dilapidato le casse dello Stato argentino distruggendo l’economia del Paese. O attraverso un protezionismo esagerato oppure con decisioni che hanno fatto tracollare interi settori. Ma garantendo sempre uno Stato “Babbo Natale” che elargisce sovvenzioni in cambio del voto alle classi più bisognose, soldi che servono poi a mantenere la povertà invece di far progredire socialmente le persone, perché fini a se stesse e senza progetti concreti. E sopratutto permettendo una “fiesta” alla classe media, quella che poi ha sempre pagato le conseguenze dei danni.

Il grande intuito è sempre stato quello di lasciare il potere in stato di crisi, come succede da 40 anni, in modo da far pagare il conto dei piatti rotti ad altri. Che, avendo le casse vuote, devono accedere a prestiti e imporre sacrifici alla gente. Fatto che, durante le crisi che si susseguono, ogni 10 anni, alimenta la protesta che il peronismo accoglie, promettendo di tornare a un benessere quasi immediato ottenuto con la solita bacchetta magica. È accaduto nel 1987 con il Governo Alfonsin, si è ripetuto nel tragico 2001 dopo i disastri di quello di Carlos Menem ed eccoci arrivati alla terza puntata della commedia, che però trova sempre chi abbocca all’amo.

Questa volta però il kirchnersimo ha in serbo una carta molto importante, anche se non è stata sbandierata molto: quella dell’eliminazione del ministero della Giustizia e la sua sostituzione con una “Justicia Popular” manovrata da Giudici militanti (?) e sorretta da un apparato mediatico altrettanto militante (?) avendo prima eliminato quello professionale, fatto di giornalisti che hanno avuto il coraggio, attraverso le loro inchieste, di indagare la corruzione dei loro Governi.

Insomma, l’Argentina si prepara a vivere gli ultimi mesi di una seppur sgangherata Repubblica per passare a un regime autarchico che della democrazia ha un concetto simile a quello di Maduro in Venezuela. Due mesi sono troppo pochi per provocare quei cambiamenti radicali che, se fatti durante questi anni di Governo, avrebbero permesso a Macri di raggiungere un altro mandato: invece la paura (che ora si fa concretissima) di una bocciatura elettorale gli ha fatto tirare il freno su delle riforme strutturali e repubblicane, la cui mancanza ha ora provocato una situazione che rischia purtroppo di portare l’Argentina a ripetere, per l’ennesima volta, gli stessi errori.