Domenica scorsa Javier Milei ha ufficialmente assunto la Presidenza della Repubblica Argentina, in un’atmosfera tra il trionfale e il catastrofico, visto quello che è accaduto.
Innanzitutto bisogna dire che la giornata ha fornito il termometro della speranza estrema della gente che massivamente ha deciso il 19 novembre di voltare pagina rispetto alle esperienze degli ultimi 50 anni eleggendo un candidato fuori dal normale circuito politico, ma anche quello della disperazione quando, nel corso del suo primo discorso da Presidente nella piazza antistante il Congreso de la Nacion, Milei ha ripetuto più volte la frase “Non ci sono soldi in cassa”, scatenando una marea di applausi di persone che ripetevano, gridando, lo stesso concetto.
Si è trattato di un intervento sincero nel quale il Presidente non ha fatto nessuna promessa sul modello peronista della “bacchetta magica” in grado di ribaltare anni di crisi incredibili, dei quali gli ultimi quattro hanno superato ogni limite a livello storico, insistendo sui sacrifici, che saranno a carico dello Stato e non peseranno sull’economia privata, ma anche sulla libertà di una società che sarà basata sui principi dell’economista argentino Banegas-Linch con uno Stato sì presente nell’assistenza basica, ma assente da un’economia che godrà, lo ripetiamo, della massima libertà di azione.
I dati della situazione economica argentina li abbiamo già abbondantemente elencati in molti articoli e sono stati ripetuti nel discorso presidenziale: Milei, però, ha condito il suo pensiero con degli errori storici madornali, dicendo che 100 anni fa l’Argentina era la prima potenza mondiale e che successivamente è iniziato il tracollo. Falso, perché il Paese era sì uno dei più prosperi al mondo ma non il principale, e il suo declino è iniziato con l’ascesa di Peron al potere (1947), visto che già dal 1953 le immense riserve auree di cui disponeva erano sfumate per dare inizio alle crisi che hanno accompagnato la sua storia fino ai giorni nostri.
Anche la previsione di un’inflazione futura che, causa una mancanza di fondi bancari e un’economia distrutta, porterà il Paese (se si continua con il trend attuale) a vivere una sicura Argenzuela, è stimata nella stratosferica cifra del 15.000% e sa molto di proiezione azzardata e niente affatto possibile.
A parte queste “grillate”, il Presidente ha anche escluso di voler ricorrere a politiche incentrate sul gradualismo che, a quanto afferma, sono tutte fallite nel passato, per iniziare con riforme profonde, la prima delle quali è stata attuata la sera stessa di domenica, con la firma di un decreto che riduce a soli 9 i Ministeri, raggiungendo il record nel Continente latinoamericano: è un primo importante segnale al quale seguiranno altri che saranno annunciati in questi giorni sia dal Presidente stesso che dal suo ministro dell’Economia Caputo e che, stando le dichiarazioni di quest’ultimo del 27 novembre scorso, non includeranno né la depolarizzazione e nemmeno la chiusura della Banca centrale, rivedendo tutta la situazione cambiaria e stimando un valore del dollaro a circa 640 pesos, contro i mille attuali.
Altra manovra ormai certa, vista anche la ripresa di relazioni profonde con gli Usa, è l’uscita dell’Argentina dall’area Brics, come rivelato da un messaggio pubblicato recentemente dalla fiammante ninistra degli Esteri Diana Mondino, che ha aggiunto che è stata firmata la richiesta per entrare nell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, della quale fanno già parte, tra i Paesi latinoamericani, il Cile, il Messico, la Costa Rica e la Colombia.
Altra decisione confermata da tempo è quella sia di un intervento importante sulla massa di sussidi che soffocano in pratica parte delle politiche statali, sia per quanto riguarda l’ordine pubblico: in particolare le quotidiane manifestazioni organizzate da due gruppi sociali quali il Partido Obrero e il Movimento Evita, i cui responsabili si sono arricchiti con la gestione dei sussidi e di adunate che bloccano letteralmente il traffico a Buenos Aires per ore. E di cui fanno parte masse di sussidiati obbligati a intervenire che spesso non sanno minimamente per quale ragione manifestano. A partire da ora ci sarà tolleranza zero e anche controlli che, come affermato dal Presidente, toglieranno i sussidi ai “singolari” partecipanti.
Altro particolare registrato nella giornata di domenica riguarda il comportamento delle autorità uscenti, in particolare della ex Vicepresidente Cristina Fernandez de Kirchner che, arrivata in Parlamento per partecipare alla cerimonia del passaggio di funzioni, ha salutato la folla girandosi di spalle ed esibendo il dito medio della mano destra. Ma non solo: nel corso dell’atto ha mantenuto uno sguardo basso con un’espressione facciale di odio che traspirava da tutti i pori.
Ora il suo futuro è appeso a un filo, vista non solo la perdita dell’immunità parlamentare ma anche i circa 9 processi che l’attendono e la condanna a 6 anni di carcere in primo grado da confermare. Di certo sono in corso trattative molto riservate per discutere la delicata questione e gli argomenti, pochi a dire la verità, a disposizione di Cristina si incentrano sull’eventuale incendio che il kirchnersimo potrebbe far scoppiare nel Paese per contrastare le politiche del Governo, anche perché la sua situazione giuridica, viste le tonnellate di prove che da anni si sono accumulate nei Tribunali e l’interruzione dei continui rinvii dei processi espressa dalla giustizia, è quanto mai segnata. Ma deve anche considerare che l’eventuale ricorso alla “forza” non conterebbe sulla maggioranza di un Paese che ormai la considera una delle responsabili della crisi stellare che sta vivendo.
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