Nel sostanziale stallo di una politica nostrana, così distante dalla realtà di un Paese che sta affrontando la crisi più grande, sia economica che sociale, dal dopoguerra, la scorsa settimana mi ha colpito una notizia, anzi un comunicato, che mi ha riportato di colpo indietro di circa 40 anni.
Il deputato Fabio Porta, della ripartizione America Meridionale del Pd, che i lettori già conoscono per il coraggio nel denunciare gli innumerevoli brogli nelle elezioni italiane all’estero, alcuni dei quali lo hanno colpito direttamente, ha presentato un’interrogazione al Governo nella quale si chiede esplicitamente un intervento dell’Italia nella salvaguardia dei diritti dell’etnia Yanomami, originaria di un territorio molto vasto che si divide tra Brasile e Venezuela.
Le immagini della sofferenza del popolo Yanomami, indigeni della foresta amazzonica brasiliana – sostiene Porta – scuotono le coscienze di ognuno di noi e non possono far restare indifferenti persone come me impegnate a costruire il bene comune in politica, soprattutto quando sembra che lo sfruttamento illegale delle loro risorse interessi anche le importazioni italiane di materiali preziosi. Per questa ragione ho chiesto, con una interrogazione al Governo, di attivarsi sul piano diplomatico affinché vengano implementati gli accordi internazionali in vigore per assicurare la sostenibilità e la tutela delle popolazioni indigene e venga aiutato il popolo Yanomami ad uscire dall’emergenza. Inoltre, per evitare che il prodotto dello sfruttamento illegale del territorio appartenente a tale popolo arrivi anche in Italia, arricchendo i predatori, che venga rafforzata la rete di controllo sulla filiera dei prodotti provenienti dall’estero, in maniera che siano chiare ed evidenti le certificazioni richieste sul piano internazionale, per assicurare un made in Italy che rispetti l’eticità dell’origine dei prodotti secondo norme internazionali universalmente acclarate“.
Lodevole appello, non c’è che dire, la cui lettura mi ha risvegliato il ricordo di un’esperienza vissuta nel 1983 che credo sia stata la più bella, ma anche sconvolgente di oltre 40 anni passati da viaggiatore incallito.
Un anno prima, per caso, mi imbatto in un libro intitolato “I fiumi scendevano ad Oriente” di Leonard Clarke: personaggio con una biografia assolutamente interessante che da spia Usa in Cina, nel corso della Seconda guerra mondiale, al suo rientro in patria si interessa di archeologia e in particolar modo elabora un’interessante teoria sulla possibilità che, all’arrivo dei conquistadores Spagnoli, gli Incas, che erano la classe dominante dell’etnia Quechua di origine andina, siano fuggiti dal Macchu Pichu e si siano inoltrati in Amazzonia, dirigendosi verso l’Ecuador. Clarke pensa che lì si possano trovare non solo tracce di questa civiltà ma pure tesori e nel 1947 intraprende un viaggio che poi descrive nel libro. Testo assolutamente da consigliare perché l’autore, con le sue descrizioni mirabolanti di luoghi e persone, trasporta a vivere quel meraviglioso viaggio. Quel libro poi venne adottato dalla scuola media unica italiana (che ancora produceva cultura) e divenne, nel nostro Paese, un bestseller.
La reazione che mi provocò la sua lettura fu che mi venne una voglia matta di conoscere il Continente Amazzonico e così seguii le orme di Clarke spingendomi in un’avventura che durò sei mesi nei quali, oltre al Perù dove iniziò il mio viaggio navigando sul Rio delle Amazzoni, raggiunsi l’Ecuador, la Colombia, il Venezuela e, ovviamente, .
Nel tratto brasiliano, navigando sul Rio Negro, mi imbattei, nel corso di una sosta in una località non lontana dal confine venezuelano, in persone che iniziarono a parlarmi degli Yanomami, una tribù che ancora non aveva avuto contatti profondi con la civiltà (cosiddetta sia ben chiaro), ma che subiva uno sterminio per la semplice ragione che il territorio dove viveva (e vive…) è pieno di ricchezze di vario genere, ma specialmente di oro, fatto che attirò i “garimpeiros”. Così vengono definiti in Brasile degli avventurieri in perenne ricerca del prezioso materiale, motivo per il quale uccidevano gli indios che ovviamente non gradivano molto questa presenza nei loro territori.
Già prima di approdare a Manaus per poi proseguire la navigazione deviandola verso Nord, mi ero imbattuto, specie nei dintorni di Leticia, una città divisa nei tre Stati di appartenenza (Perù, Brasile e Colombia) in fatti che riguardavano non solo il massacro, ma anche la schiavitù di indios originari messi al servizio di fazenderos locali e sfruttati. Una decimazione che si univa alla quantità industriale di incendi provocati al solo scopo di distruggere la foresta per creare terreni dediti specialmente ai pascoli. Sorvolarli era un colpo diretto al cuore nell’ugual misura che conoscere la situazione dei suoi ancestrali abitanti.
Gli unici che all’epoca tentavano di aiutare gli Yanomami a non soccombere erano dei missionari laici, alcuni dei quali comboniani, che non tanto nell’indifferenza, quanto combattuti dai ceti più abbienti delle varie zone, tentarono di insegnare anche la lingua portoghese agli indios che, come ripeto, non avevano mai avuto contatti con chicchessia e vivevano profondamente la “loro” selva.
Sono passati 40 anni e, purtroppo come vediamo, il problema continua specie in Brasile che sotto tutte le presidenze, anche quelle falsamente rispettose dei tanto declamati “diritti umani” hanno continuato a distruggere un patrimonio dell’umanità come l’Amazzonia e i suoi abitanti: in nome del business più becero che fa il paio pure con tante favolette “green” che ci vengono propinate a danno di popolazioni che vengono sfruttate come schiave nelle miniere di materiali atti a produrre batterie, in nome della nostra “liberazione” dalla CO2 attraverso la conversione elettrica delle auto. Cosa peraltro già affrontata da molti colleghi proprio sul Sussidiario, al contrario di tanta stampa mainstream pronta a celebrare lo stupido divieto Ue.
1983-2023: nulla è cambiato e lo sterminio degli oltre mezzo milione di indios, come giustamente dice l’Onorevole Porta, continua senza sosta mentre, dato di questo mese, il disboscamento dell’Amazzonia ha raggiunto una percentuale da record, come informano molti media brasiliani.
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