Le elezioni svoltesi Domenica in Cile hanno portato a un risultato sicuramente meno incerto rispetto a quanto facesse presagire l’ultima tornata elettorale. Messo alle strette nella scelta tra due blocchi contrapposti ed estremisti, il Paese ha chiaramente espresso, con il 56% dei voti, la preferenza per l’ex leader comunista delle proteste del 2019, Gabriel Boric, rispetto al “restauratore” di ispirazione “pinochettista” Antonio Kast, che pure si era imposto, seppur di poco, nella prima tornata elettorale.
Ora questo apre la porta a una serie di dubbi che, di verso esattamente opposto, avrebbero avuto luogo anche in caso di vittoria di una destra altrettanto estrema: il risultato odierno rappresenta la fine di un Cile che, nel corso di decenni, rappresentava non solo un esempio di democrazia, ma anche un miracolo economico di tutta la regione latinoamericana? Oppure si assisterà a una virata verso un populismo continentale che annovera già un numero consistente di Paesi, nonostante risultati disastrosi accumulati nel corso degli ultimi anni?
La differenza tra i due blocchi contrapposti nel loro estremismo è stata davvero consistente (56% contro 44%) e questo potrebbe illudere Boric (il più giovane Presidente cileno) di poter intraprendere un cammino “rivoluzionario”. Dichiaratosi l’erede della “Rivoluzione dei pinguini”, movimento studentesco della scuola secondaria (così battezzato per le sue uniformi che ricordano il simpatico bipede), che nel 2006 si scontrarono e misero in seria crisi il Governo socialdemocratico di Michelle Bachelet con le loro proteste nel richiedere una sistema scolastico gratuito e di qualità, il nostro Gabriel, alunno della facoltà di Diritto (che non terminò mai) e leader della poderosissima Federazione degli studenti universitari, già nel 2014 venne eletto deputato (carica rinnovata nel 2018). Critico del sistema neoliberale, si considera erede di tutti coloro che hanno lottato per fare del Cile “un Paese con più giustizia” e il fulcro del suo progetto è ristabilire il ruolo dello Stato come predominante nelle politiche nazionali.
Nel corso dell’ultima campagna elettorale ha però decisamente smorzato i toni, dichiarandosi aperto al dialogo, e questo per non spaventare eccessivamente l’elettorato moderato con proclami di stampo populista. L’operazione è andata a buon fine, visto il risultato, ma proprio in virtù di quest’ultimo al di là delle più rosee previsioni, in molti pensano che l’intenzione rimanga tale.
Ad attenuare però questo fronte c’è da considerare che il nuovo Presidente, seppur eletto con una schiacciante maggioranza, dovrà fare i conti con un Parlamento nel quale dispone di meno di un terzo dei voti e quindi dovrà tener conto sia della fortissima Democrazia Cristiana che del Partito della Gente come pure del Centro Unito, con i quali dovrà patteggiare quel cammino di riforme che è sì richiesto a gran voce dalla gente, ma non nella forma radicale che, se potesse, Boric attuerebbe.
Va da sé che il primo passo sarà rappresentato da un progetto di nuova Costituzione che, seppur liberato dall’influenza che ancora manteneva il pinochettismo, è costituito in un buon 70% di punti proposti da una sinistra radicale figlia delle proteste del 2019, e che di conseguenza rischiano di ribaltare completamente quello che dovrebbe essere lo spirito democratico del nuovo documento.
E altresì chiaro che il Cile sta attraversando una situazione economica, figlia della pandemia, con un indebitamento del Paese e un’inflazione notevole per cui, anche volendo, sarebbe impossibile per Boric portare a compimento il suo programma iniziale. Ma è altresì vero che bisogna riformare un sistema sia scolastico che sanitario nel quale la presenza dello Stato ha finora prodotto risultati negativi. E questa problematica è molto sentita da diversi strati della società: per questo è indispensabile proseguire con determinazione, ma anche con quel dialogo che ha sempre contraddistinto la storia democratica, senza il quale le prospettive di futuro non saranno positive.
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