La prima tornata delle elezioni presidenziali svoltesi lo scorso 29 maggio in Colombia ha riservato una sorpresa: a contrastare l’ex guerrigliero delle Farc e leader della coalizione di sinistra Pacto Historico, Gustavo Petro, nel decisivo ballottaggio del 19 giugno non sarà il leader della destra Federico Gutiérrez, come i sondaggi avevano pronosticato, bensì “l’ingegnere”, come gli piace essere chiamato, Rodolfo Hernandez, che, con la sua Liga de Gobernantes Anticorrupción, ha ottenuto il 28,18% dei voti contro l’oltre 40% di Petro.
Il fatto più inatteso riguarda però la sostanziale sconfitta dei partiti tradizionali di centrodestra nonché dell’uribismo, che fa riferimento all’ex Presidente Alvaro Uribe, ma sopratutto per quello uscente Ivan Duque che, eletto nel 2018, non ha saputo governare un Paese che nel corso della sua storia recente ha dovuto superare, con molta fatica e sacrificio, il dominio del potentissimo settore del narcotraffico e la guerra civile con le Farc (le Forze Armate Rivoluzionaria Colombiane) che solo dopo un trattato di pace firmato nel 2016 hanno teoricamente posto fine alla guerra civile che per oltre 50 anni ha scosso il Paese. Un processo che però, in pratica, deve definirsi una volta per tutte ora, visto che la Colombia risulta essere ancora in una situazione estremamente delicata, specie dopo le proteste scoppiate nel 2021 contro la riforma fiscale proposta (ma poi ritirata) da Ivan Duque, manifestazioni nelle quali si sono registrati più di 60 morti.
L’attuale Presidente è accusato non solo di non aver perseguito l’implementazione degli accordi di pace, e di una gestione alquanto approssimativa della pandemia Covid, con conseguente crisi sanitaria, ma anche di aver fatto poco o nulla per affrontare le problematiche strutturali del Paese sia economiche (uno stipendio minimo di appena 234 dollari mensili con una diffusione massiccia del lavoro nero) che sociali, dovute non solo alla presenza di gruppi armati illegali (nonostante la “pace” siglata), ma anche alla gigantesca immigrazione dovuta alla crisi venezuelana calcolata in oltre 2 milioni di arrivi, l’assenza di infrastrutture in molte zone rurali del Paese e un livello di disuguaglianza tra i più alti del Continente latinoamericano.
Secondo il Governo, invece, i disordini e la conseguente situazione che ancor oggi risulta di difficile gestione sono provocati da gruppi di infiltrati venezuelani e anche da ex militanti delle Farc costituitisi in gruppi paramilitari indipendenti. Come accaduto nel Cile di Pineyra. Sta di fatto che nella pratica Duque non ha saputo arrivare a risolvere le problematiche e a far ripartire degnamente un Paese tra i più ricchi dell’America Latina. E questo spiega la debacle elettorale della destra.
Ma la questione pone, come sempre, al centro dell’attenzione un altro fattore, e cioè come possa un Paese fidarsi, per risorgere, di un candidato Presidente che proviene dalle stesse forze armate clandestine che, nella pratica, si rivelarono non solo protagoniste del tragico passato, ma pure alleate, spesso e volentieri, con i narcos. Con 8,5 milioni di voti ottenuti, Gustavo Petro è un economista che ha al suo attivo non solo la partecipazione ad altre elezioni Presidenziali senza esito positivo per ben due volte, ma anche la carica di ex Sindaco di Bogotà. Il suo programma è basato su riforme come quella di espandere gli aiuti sociali alle classi più disagiate, una sanità pubblica e di alzare le tasse alle classi più abbienti. Niente di nuovo sotto il sole, benché l’interessato dichiari, molto modestamente, “di non voler cambiare un Governo bensì la Storia”.
Tra le “rivoluzioni” proposte non poteva mancare quella di puntare decisamente sulle energie rinnovabili: ma ciò accade in una Colombia dove il petrolio è considerato una vera e propria locomotiva per lo sviluppo economico, dato che il Paese ne è tra i più grandi produttori al mondo e anche esportatore. In pratica ciò potrebbe rivelarsi anche un suicidio economico, visto che sì, siamo tutti d’accordo che rinnovabile è meglio, ma purtroppo molte fonti di energia alternativa necessitano di quella convenzionale per poterla produrre: basti pensare al carbone fossile per la produzione di idrogeno.
Quello di Petro appare quindi un programma più mediatico che altro: un po’ perché contiene una ricetta tanto cara al populismo e che non ha mai provocato altro che danni economici agli Stati che l’hanno applicata senza contromisure atte a bilanciarla. Stiamo parlando dei sussidi che poi, alla fine, si rivelano dei certificati di garanzia politica per i partiti che li usano a destra e a manca senza peraltro costituire uno strumento a promozione del lavoro e quindi del benessere, ma al contrario al mantenimento della povertà. Sulla sanità siamo tutti d’accordo e anche un fisco più equo, ma senza una ripresa economica vera rischiano di essere da una parte un sogno impossibile (per gli alti costi) e dall’altra provocare fughe di capitali essenziali alla ripresa.
Il suo avversario elettorale del 19 di giugno è invece l’industriale Rodolfo Hernandez, di 77 anni, che può definirsi un mix di Berlusconi e Trump allo stesso tempo. Ha nella lotta alla corruzione il nucleo delle sue politiche ed è arrivato ad essere avversario di Petro schivando i media tradizionali e affidandosi alla Rete: si definisce il Re di “TikTok” e, guarda caso, “un uomo del popolo” (ci risiamo, ndr) definendosi politicamente indipendente e quindi al di fuori dei giochi di potere tradizionali. Insomma, un bel personaggio che ha in sé tutti i principi dei vari Salvatori della Patria che anche in Italia ben conosciamo da molti decenni.
Il problemino risiede proprio nel DNA di questo singolare personaggio: perché ovviamente se non raggiunge un accordo serio con la coalizione che raggruppa i partiti di destra e i seguaci di Uribe aprirebbe un’autostrada a 16 corsie alla vittoria di Petro: ma dovesse farcela (contraddicendosi non poco) potrebbe rivelarsi il prossimo Presidente di una Colombia che si è autocostretta a scegliere tra le due facce del populismo.
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