Con il 50,69% dei suffragi su oltre il 94% di schede scrutinate, il candidato del Pacto Historico (fronte che riunisce la sinistra colombiana) Gustavo Petro ha vinto le elezioni e sarà il prossimo Presidente della Colombia. Ha sconfitto Rodolfo Hernandez, l’industriale che sorprendentemente nel primo ballottaggio si era piazzato secondo e quindi aveva conquistato il diritto di partecipare al voto finale. Ha ottenuto il 47% dei voti (quindi una distanza non siderale con il favorito), ma quello che i media italiani hanno soprannominato il “Berlusconi colombiano”, non ce l’ha fatta.
La prima vittoria di un Presidente di sinistra in Colombia segna l’esito di un’elezione tra le più incerte di sempre perché in un Paese dilaniato nel corso degli anni dal potere del narcotraffico e da una guerra civile tra l’Esercito e le Farc e l’M19 l’attuale Presidente Iván Duque Márquez del Centro Democratico non è riuscito ad attuare un ritorno a una pace sociale a cui tutti i colombiani aspirano. Di certo la pandemia non ha aiutato questo processo, ma la pessima situazione economica, unita al regime di tasse e tagli sul sociale in un primo momento imposti e poi ritirati, ha contribuito a focalizzare il voto su due candidati che, in nome del populismo, si sono presentati come “uomini della Provvidenza” in grado di risolvere il tutto.
Classe 1960, economista e anche con un passato da terrorista nel gruppo M19 (cosa che non gradisce molto che si ricordi) Gustavo Petro è un personaggio di carattere schivo, ma che quando parla a un uditorio si trasforma in rivoluzionario e riesce a incantare il pubblico con frasi ad hoc nei suoi accattivanti discorsi.
Insomma siamo di fronte al lato A (o B se preferite) di un disco già sentito in America Latina un sacco di volte e che recentemente ha sconvolto pure il Cile (anche se nei sondaggi il “rivoluzionario” Boric è rapidamente sceso in popolarità, ma ormai è Presidente).
La questione importante è che non solo in America Latina (ma pure in Europa) le disastrose situazioni che i vari popoli hanno attraversato per colpa di governanti corrotti o incapaci ma pure estremamente pratici nell’instaurare, in mezzo ai disastri economici, politiche draconiane di recupero, favoriscono candidati che hanno la classica “bacchetta magica” per risolvere tutto in quattro e quattr’otto e promettere un roseo futuro agli elettori. In Argentina il peronismo usa questa tattica da quasi 70 anni e ha sempre funzionato, anche se poi crea disastri peggiori di quelli che si vogliono sanare.
La Colombia non fa eccezione ed ecco che, nel ballottaggio finale, ha scelto il “suonatore” più capace, che ha immediatamente urlato ai quattro venti: “Dopo 214 anni finalmente la Colombia avrà un Governo popolare”, “vogliamo che la Colombia sia leader nella lotta contro il cambiamento climatico” e via di questo passo in un rosario di intenzioni. Con un punto molto particolare, che è stato sottolineato da questa frase: “Svilupperemo il capitalismo in Colombia”, pensiero che, citato dall’ex combattente rivoluzionario che si faceva passare col soprannome di “Aureliano” lascia un po’ interdetti. A dire il vero uno il suo passato lo può tranquillamente archiviare, perché nella vita di errori se ne fanno tanti, ma la citazione ha un motivo ben preciso. Perché una gran massa di colombiani vede, purtroppo, in lui un nuovo Chávez, visto proprio un suo passato mai ripudiato, come invece accade in Argentina per l’ex Ministro della sicurezza (e ora candidata a presidente nel 2023) Patricia Bullrich, che negli anni ’70 era parte del gruppo “Montoneros”. E quindi questa sviolinata al capitalismo servirebbe a rassicurare certi animi, anche se crediamo di no.
Poi il prossimo Presidente chiarisce che “bisogna creare produzione e attività economica per poi ridistribuire la ricchezza” e via di questo passo nella ripetizione di principi già ascoltati fino alla noia in tanti discorsi. Peccato che poi quando si tratta di realizzarli si punta sempre su altre cose e alla fine, non solo in America Latina ma anche nella nostra attuale Italia, il prodotto finale è un aumento della povertà, assistita da elemosine dello Stato in cambio del voto. Regola che, con il passare del tempo e pur con i disastri avvenuti, non cambia mai e costituisce l’asse portante del populismo dei Salvatori della Patria.
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