Quando l’Airbus A300 di Ita, che omaggia il grande artista italiano Piero della Francesca, decolla dalla pista di Roma-Fiumicino, la gente ch’è seduta nei loro posti, in un attimo, da passeggera diventa pellegrina. A chi, anche soltanto per curiosità, chiedesse dove stanno andando, la risposta verrebbe anticipata dal sorriso: “In Terra Santa stiamo andando. Era da una vita che lo sognavamo, da tempo ci siam messi a risparmiare, l’avevamo programmato ancora prima del Covid”. L’aeroporto appena abbandonato, con la sua cianfrusaglia di gente e di caos, somiglia tantissimo ad un porto di mare: gente che va e viene, gente che impreca con le parole e incrocia le dita, gente affannata, seduta, rassegnata. Il mondo, con le sue storie, è un’immensa sala d’attesa; aspettare il proprio turno è sperare di farsi trovare pronti al momento della partenza.
La Terra Santa, per costoro, è un luogo geografico, una memoria spirituale, un posto del cuore: tutto assieme, moltiplicato all’infinito. Per chi tra di loro crede, è l’epicentro dal quale tutto è scaturito: la storia dopo la quale nessun’altra storia potrà più dire d’esser la stessa di prima. Avanti e dopo quella storia: prima e dopo Cristo. Somigliano a dei salmoni i pellegrini: stan tentando di risalire alla sorgente della loro storia, perché san bene che le sorgenti mantengono sempre la parola. La parola data.
Il mistero, pare persino strano a dirsi, abita a pochi chilometri di distanza: 1.470 miglia (2.281 km), poco più di due ore e mezza di volo. Abita il cielo, però ha i piedi ben piantati per terra. Nella Terra Santa, per l’appunto. Quando, dopo qualche ora, l’aereo atterra all’aeroporto di Tel Aviv, dedicato al Ben Gurion ch’è padre della patria, c’è il traffico ad attendere questa ciurma di salmoni-umani in cammino verso la terra promessa. Il caos è la condizione della vita stessa: Dio non si rivela nell’ordine ma nell’approssimazione dei nostri tentativi. Le strade affollate, da queste parti, sono una sorta di promemoria: nessun popolo, come quello d’Israele, è mai stato avvisato con così tanta sollecitudine e frequenza circa la venuta del Cristo. Ci sono state colonne di profeti mandati per preparar i loro cuori lasciando dopo di loro, come scia, perturbazioni, turbolenze, auspici. Ma, a dispetto delle avvisaglie, rimane l’emblema di un popolo distratto: il Messia è arrivato ma loro, umani dal cuore trattabile, si sono distratti quel poco che bastò per dire ch’era tutto pieno nelle loro case. Che non c’era posto per l’Iddio che tutti, però, dicevano di attendere. Se è capitato una volta, sarà più facile che riaccada un’altra volta piuttosto che se non fosse mai capitato.
Dal pullman ch’è diretto a Nazareth, l’inizio ufficiale della storia cristiana, la guida mette in chiaro le cose, l’affare serio della Grazia: “Attenzione, gente: essere qui è un privilegio. Tanti, al posto nostro, vorrebbero esserci e non ci sono. Il privilegio della Grazia, però, comporta la restituzione”. Una maniera garbata per raccomandar di fare attenzione alla trasformazione in corso d’opera: nessuno, tra coloro che lo vivranno con serietà, rincaserà uguale a com’era partito. La differenza costituirà il credito da restituire a chi, incontrandoci, vedrà cambiare qualcosa in noi, qualcosa che prima non c’era e adesso, invece, c’è.
La Grazia, da queste parti, gioca scherzi strani: rimane un’irruzione non calcolata e improvvisa. Nessuno ancora immagina cosa voglia dire passeggiare sulle strade di Cristo, ribattere la testa sulla nude rocce della Croce, distendersi al medesimo sole che ha abbrustolito la pelle ai pescatori. Il pellegrinaggio è un appuntamento al buio, alla sola luce della Grazia. Tutto il resto sarà Grazia.
Qui, da domattina, il cristianesimo inizierà ad apparire in HD: è una storia in altissima definizione. Tutto ciò che, a sentirlo predicare nelle chiese, appare sfuocato, qui ritroverà il suo lato disumano, cavalleresco, gentile, pungente. E il Dio cristiano parlerà con gli accenti del suo dialetto aspro e gridato. Non c’è una storia che assomigli a quella cristiana: non c’è una terra che assomigli a quella d’Israele e Palestina. Qui è tutto palpitante, magmatico, in stato d’assedio: tutto è sempre sul punto di saltare per aria un’altra volta. Camminare qui, chissà se i pellegrini ne sono coscienti, è camminare a piedi scalzi su giornate così ardenti da mettere a ferro e fuoco gli antenati e i nascituri: non si segue una persona, ma poiché la sia ama profondamente, si sceglie di ripercorrere il suo cammino.
A conti fatti, siamo venuti qui proprio per questo.
(1 – continua)
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