Il Mistero, sulla riva del Mare di Galilea – o lago di Genesaret, oppure mare Arpa: decidete voi come chiamarlo – somiglia ad un volo di rondini, quelle che volano qua e là come frecce. Nel litorale tra Tiberiade e Cafarnao, passando per Tabga e il Monte delle Beatitudini, il Mistero rasenta la nostra testa, piomba a capofitto sulle nostre teste per poi, appena accarezzate, rialzarsi in volo, farci impazzire.
C’è uno speciale fermento in questi luoghi dove il Cristo, appena il tempo di farsi uomo, ha messo in piedi la sua scalcinata squadra di apostoli. Le venerande pietre di Tabga sono lucide e scivolose, l’afa di Cafarnao – “Il paese di Gesù” come recita orgogliosa la scritta – ha conservato finora la sua primitiva castità: ha una suggestione così potente da costringerti a voltarti, d’improvviso, perché colto dal sospetto che dalla riva del lago avanzi una barchetta con sopra i suoi pochi amici. Che, però, non arriverà: suoi amici, oggi, siamo noi, pellegrini in questa terra dove la Chiesa fu creata.
Questa chiesa “nuda” non chiede che si creda in lei, prima di tutto. Essa proclama di credere in ogni uomo e in ogni donna, nella loro capacità di rialzarsi. Il lago è tacito e deserto: ci sarà anche Giuda, nascosto tra la folla, come due millenni fa? “Può anche darsi!” risponde il cuore. I luoghi e gli spazi sono immensi, eppure è attorno alle stesse pietre che ci s’incontra: si sente gente ansimare in americano, ridere in arabo, che predica in tedesco, si lamenta in spagnolo. Il mondo è quello che è, con le sue comiche stoltezze e i suoi giochi perfidi: se Cristo (ri)tornasse sulla terra, s’adatterebbe o si rifiuterebbe d’adattarsi? La domanda è in perpetuo corso d’espressione.
A Tabga c’è ancora profumo di quel pane moltiplicato: “È l’unico cibo che non si trasforma in noi (per finire nel water) – avverte la guida –, ma è lui che ci trasforma in lui. Facendoci diventare cibo eucaristico”. Pare cadere nel vuoto l’accortezza, ma anche se continuiamo a fare la nostra folle vita e non lo diamo a vedere, s’insinua un disperato fantasticare tra le molliche di quel pane.
E là, nel mezzo del lago calmo, vien riletta la celebre pagina della tempesta sedata: non più Pietro e compagnia bella sulla barca a spartirsi la paura, ma stavolta ci siam noi. Abbiamo bisogno di far esperienza d’essere salvati: altrimenti chi potrà mai essere Dio per noi? Cosa potrà mai valere un Dio che dorme a poppa: “Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva”. Ma non dorme affatto, stai certo: sta solo aspettando che io lo butti giù dal letto, ridestandolo dal torpore: “Maestro, non t’importa che moriamo?” (Mc 4,38). “Sveglia Cristo che dorme dentro te! Ammettilo che soltanto da Lui può venire l’aiuto”.
Il silenzio che piomba sul lago mette i brividi ai pellegrini in ascolto che, voltandosi a destra a manca, sembrano assediati, d’essere sul punto pure loro di sentire l’acqua arrivare fin sul collo, di chiedere al loro Dio di poter andargli appresso, ritentando di passeggiare sulle acque. Lo sanno bene che camminare sulle acque non è umano, ma è il Cristo-pescatore a mettere loro il sospetto – come una vespa che si getta nelle piaghe dei fichi – che la natura umana può mutare: da aggressiva qual è, potrà diventare capace di comunione. L’ha sperimentato Pietro a nome di tutti, prima di tutti.
Nella chiesetta affacciata sulla riva del mare, la pietra gobba porta affissa una scritta: Mensa Christi. Qui, risorto, il Risorto imbastì in quattro e quattr’otto una cena di pesce per gli amici suoi che, frustrati per il sospetto di essere stati abbindolati in lungo e in largo da quell’Uomo morto, s’eran ributtati ai loro vecchi mestieri. Qui il grande pescatore di Galilea venne guarito dalla sua più grande delusione: gli venne affidato il primato che tutt’ora porta le stimmate di Cristo in chi lo raccoglie. È lo splendore inaspettato di una esultanza che Pietro pensava scomparsa: “Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?” (Gv 21,15).
Nel mentre Pietro tenta di trovar le parole giuste, una pellegrina tira fuori dalla tasca un cuore di carta e, armata di penna, risponde lei al posto del primo Papa: “Tù saber que te amo! Gracias por amarme tambien”. C’è una forza preistorica nella più erotica di tutte le domande sull’amore: non riesco ad immaginare che cosa potrebbe succedere se tentassi la mia risposta alla domanda, se avvicinassi la mia a questa bocca così densa di lava e di passione. “Marco, mi ami tu più di costoro?” Se la scanso, evitandola, è soltanto grazie al mio sorriso ebete.
Prima d’andare via, fisso il lago dalla riva: mi pare di rivederlo ancora lì. Lo guardo con sospetto: Lui si apre in un sorriso affettuoso. Sento d’esser nel momento esatto della mia fioritura: sotto un cielo in tempesta. Non alzo nemmeno gli occhi, tanto so già che Qualcuno è già lì, ad aspettarmi: “Seguimi!” Passandomi vicino, una signora araba mi offre una bella risata: forse è il mio volto a fargliela esplodere.
Se si può ridere di una cosa, si potrà anche cambiarla.
(3 – continua)
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