La parola “mangiatoia” nella lingua latina è “praesepe”, dalla quale deriva il nostro “presepe”. Al pellegrino più attento non possono non drizzarsi le orecchie: “(Maria) diede alla luce il figlio primogenito, l’avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia” (Lc 2,7). “La mangiatoia del nostro peccato è dove torniamo come animali per cercare il cibo” rammenta la guida.
E nella mangiatoia, guarda caso, il Dio cristiano si fa trovare, come nel luogo d’un appuntamento: laddove l’uomo va a cercare un momento di refrigerio durante le fatiche – questa è la forza del peccato, che tanto più c’illude tanto più ci delude – Dio diventa Gesù, dandoci la possibilità d’intravedere un modo diverso d’essere uomini e donne. Betlemme, “la casa del pane”, è tutta qui, nell’assurda follia di questa mangiatoia: da dietro, protegge le spalle al pellegrino che, curvandosi e fregandosene dei reumatismi, si inginocchia a poggiare la mano su quella pietra dove “hic verbum caro factum est”.
Qui, proprio qui, il Mistero si è fatto di carne: in questo pezzo di terra reso levigato da milioni di mani che l’hanno accarezzato e baciato, Dio ha poggiato i suoi piedini, ha messo il piede a terra. A Betlemme ciò che all’uomo pare esser così assurdo da sfiorare la bestemmia, “in quel tempo” è diventato il più grande dei gesti d’amori possibili. “Qui Dio si fa uomo, esattamente qui dove gli uomini sognano di diventare dio rispetto a qualcun altro” penserà qualcuno. Che, piace sottolinearlo, dice solo la verità: l’impossibile degli uomini è il possibile di Dio.
Nella Basilica della Natività, nell’aprile-maggio del 2002, decine di militari palestinesi ricercati si rifugiarono, inseguiti dalle forze di difesa israeliane che tennero in stato d’assedio l’intera città di Betlemme, durante il periodo della cosiddetta seconda intifada. Immagini che fecero il giro del mondo, che tennero in stato d’ansia la cristianità e la politica internazionale. Perché qui, come anche a Gerusalemme, non si muove foglia che non produca ripercussioni nella salute del mondo intero.
Qui, dove la terra vide muovere i primi passi al Principe della Pace, la pace è ancora un’illusione, utopia, un progetto in fase d’elaborazione e di riscrittura. Betlemme è pur sempre segregata al di qua del muro, (co)stretta a fare i conti con una libertà sempre carente e in stato d’ansia: Cristo, anche oggi, è prigioniero della libertà dell’uomo. “Ricordati che tra Dio e il mondo – è un porporato a suggerirmelo prendendomi sottobraccio nella piazza della basilica – si è messo di mezzo Gesù Cristo, che è misericordia”.
Capisco che dev’essere stata una grande fregatura, per Dio, aver messo il Figliolo così di traverso tra la l’amore e il peccato: da allora – oltreché accettare di dipendere, in un certo modo, dalla libertà dell’uomo – Dio dovrà fare i conti la sua voglia d’andar a recuperarlo altrove. “Qualcuno ha visto Giuda, in piazza a Betlemme, per caso?” Ci sta, è possibile: Dio è colui che lascia crescere insieme tutte le cose, spesso a proprie spese, nella loro diversità. Se non è precario, l’equilibrio è solamente uno sterile restare immobili. Per trent’anni, rincasato da Betlemme, Cristo ha dovuto fare il falegname e il profeta precario, una sorta di freelance ante litteram.
All’ora del tramonto, l’appuntamento è nel deserto di Giuda: uno spettacolo che intimidisce, che obbliga al silenzio, che induce ad una grande umiltà. Anche lo spirito più grezzo, qui, avverte la propria piccolezza di fronte alla vastità della creazione, agli abissi dell’eterno. Non si fugge nel deserto per scappar via dalla realtà, ma per trovare il cuore della realtà: “La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16).
Nel mentre della strada, passiamo accanto alla Hogar Nino Dios: “Ricordatevi che sono io” recita la scritta all’ingresso. A pronunciarla è un Dio bambino appena nato. Qui, gente di gran cuore, accoglie bambini nati con delle disabilità. Perché a Betlemme – e se non qui, dove? – “Dio fa abitare una casa ai derelitti” (Sal 68,7), non dimentica i suoi poveri. Lui, nato povero. A Sparta, invece, il figliolo se nasceva difettoso o poco aitante veniva gettato dal baratro del monte Taigeto: né per sé né per la città era meglio che vivesse. Tra tutte le città della Grecia, Sparta è l’unica a non avere lasciato all’umanità né uno scienziato, né un artista, né un filosofo. Forse gli spartani, senz’accorgersi, eliminando i loro neonati malati o troppo gracili, hanno assassinato anche i loro musicisti. Betlemme, però, non è Sparta: anche se il porco di Erode sognava di dormire pulito mangiando sporco. Non gli riuscì: tutta colpa d’un Bambino. Che, a Betlemme, è così di casa da non poterlo evitare ad ogni angolo. “Si è messo di traverso!”: ha ragione il porporato (stavolta). Il Vangelo ci lascia davanti al non-senso delle cose: s’accontenta di rimandarci altre domande senza risposta.
(5 – continua)
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