Farà fatica il pellegrino – a patto che voglia farla – a scordarsi quella lastra di roccia vergine che sporge per quasi due spanne dal pavimento nella basilica dell’Agonia, al Gethsemani. È una roccia che, pur fredda, è bollente: è il luogo nel quale il Cristo – ch’era ormai prossimo a crepare da solo come un cane – si inginocchiò la notte nella quale venne mollato. “E questo è ancora nulla: avreste dovuto vedere l’ignavia degli amici, come l’hanno abbandonato” sembrano tradir il segreto agricolo gli otto antichissimi ulivi – sgangherati, intrecciati, logorati dal tempo – che probabilmente hanno assistito alla preghiera di Gesù. Son loro, più che gli apostoli, i testimoni muti di ciò che accadde quella notte.
Se avessero la voce per raccontare ciò che hanno veduto! Gethsemani significa “frantoio d’olio”: e proprio come un’oliva venne spremuto il Figliolo di Dio. Qui appare d’un umano che lascia tramortiti, sbigottiti, impauriti: qui, per la prima volta in maniera così esplicita, Cristo avvertì tutta la debolezza, l’infelicità. “Pare proprio mio fratello – sembra dire a sé medesimo il pellegrino ascoltando i versetti di Isaia proclamati nell’eucaristia: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi (…) Uomo dei dolori che ben conosce il patire” (cfr Is 52) –: vorrei potergli stringere la mano, battergli una pacca sulla spalla, discorrere con lui un po’ perché non si sentisse solo”.
Questo, alla fine, aveva chiesto agli amici vigliacchi: che stessero un po’ svegli a fargli compagnia. Invece, come ghiri dal sonno profondo, si sono comportati: “Non avete dunque potuto vegliare con me neppure un’ora?”. Fine dell’illusione di Cristo, inizio della delusione amica: così son fatti gli uomini. Così Cristo soffre come pecora da macellare: è il più solo di tutti i solitari di quaggiù.
Quando si esce, si punta dritti al Santo Sepolcro. Tra il canto collerico del muezzin, il ciarlare dei venditori di spezie, il rumore dei trattori sul selciato della città vecchia, celebriamo la Via Crucis. Un mix d’indifferenza, spiritualità, agonia e menefreghismo: Cristo, ancor oggi, è poco più che una comparsa nel cuore di una città. Scandendo le stazioni come fossero tappe di una mattanza, ognuno si accorge d’essere attore e protagonista dell’ultima crociata della storia: quella contro la nostra fatica di credere. Il nemico è divenuto lo spirito nostro che si è fatto sfibrato, annoiato, sconfortato. Il cuore umano è un terreno che brucia, sta sempre in tensione per la possibilità di qualche tiro che lo accoltelli. “T’immagini Cristo vicino a noi oggi, a camminarci a fianco – mi confida un pellegrino tra una stazione e l’altra –. Vederlo appeso in croce, poi!”
Lo contraddico. Non son così convinto: se oggi Cristo ritornasse – di questo mi sto convincendo – noi non lo metteremmo più in croce. L’han fatto allora, ch’era l’epoca delle grandi passioni. Noi, invece, siamo intelligenti, rifiutiamo la tortura e la pena di morte: oggi noi lo manderemmo sul patibolo, lo metteremmo “tra virgolette”, lo compatiremmo per tenerezza. Nessuna croce (in vista) per Cristo: meglio l’indifferenza così le mani restano pulite. Gerusalemme, Gerusalemme, “osculo Filium hominis tradis?”
Appena dentro il sepolcro, sulla destra, s’incunea ciò che un tempo fu una salita: oggi sono solo gradini, allora era il pendìo del Golgota. La mano, dentro una buca di ferro, va a palpare ciò che resta della roccia sulla quale collocarono la forca. Poi ancora scalini, a scendere, a rotta di collo: è la via crucis in discesa fatta da Maria, senza più il Figlio. La pietra della deposizione anticipa, annuncia il Santo Sepolcro. Ci si deve ingobbire per entrarci. Questo, in Terra Santa, è un marchio di fabbrica: siam troppo altezzosi, troppo giganti, fin troppo sapienti per comprendere una simile debolezza.
Nel sepolcro, poi, un grande vuoto è lì per spalancare le braccia al pellegrino giunto alla sorgente. Ch’è partito da casa per andare al cimitero a pregare il suo Dio ma, una volta oltrepassato il cancello, si accorge che il sepolcro c’è, ma è vuoto. Ultimamente siamo diventati esperti dei vuoti: piazze, strade, chiese vuote. Il vuoto ci ha inorridito al punto che, appena ci accorgiamo di un vuoto, tentiamo di riempirlo. Senz’accorgerci che la nostra fede poggia su di un sepolcro vuoto: c’è un vuoto a sostenerci, abbiamo un vuoto per radice: “Io non ho la fede, è la fede che tiene per mano me” penso mentre il monaco mi fa cenno d’entrare. Era necessaria l’aria dell’Oriente, per riscoprire il vuoto come amico. Mentre nei cimiteri, nonostante i fiori, non è mai primavera.
Il pellegrino che mi precede, nel frattempo, ha appoggiato il suo capo sulla pietra disadorna del sepolcro: è per questo ci siamo spinti fin quaggiù.
Per perdere l’(ab)uso della parola.
(7 – continua)
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