Il Perù sembra proprio non poter godere di una normalità sia politica che sociale: dopo la coda di Presidenti che si son dovuti dimettere perché implicati in vari scandali legati principalmente alla “Tangentopoli” di Odebrecht, ora è il turno del “rivoluzionario” Pedro Castillo. Proprio colui che aveva promesso una rivoluzione rifacendosi in parte alla triste esperienza di Sendero Luminoso (il gruppo armato maoista che sconvolse con la sua violenza la vita del Paese negli anni ’80 e aprì di fatto le porte alla presidenza “dittatoriale” di Fujimori che dal 1990 governò per dieci anni) di cui ha nominato, nel suo Governo, diversi ex componenti, alla resa dei fatti si sta dimostrando concretamente incapace di occupare l’incarico e da qualche tempo provoca proteste popolari che si sono estese su tutto il territorio nazionale e che vedono, stranamente insieme, elementi appartenenti all’opposizione uniti con supporters di Castillo che, non sapendo come uscire da un’impasse e dopo due tentativi di impeachment senza esito, non ha avuto miglior idea di istituire il coprifuoco per vedere di calmare gli animi.
L’instabilità politica continua a essere un problema per un Perù che, incredibilmente, in questa sostanziale confusione ha avuto un’economia che, fino a poco tempo fa, faceva parlare di miracolo dopo anni di recessione.
Ma Castillo nei primi 100 giorni del suo mandato non ha fatto altro che peggiorare le cose, con le dimissioni volontarie di 5 ministri e di altri 4 allontanati da lui, con continui problemi al punto che non è passata settimana senza qualche guaio istituzionale.
Da questa continua tempesta è sorto un Presidente più forte e accentratore di potere del solito, al punto da far fuori pure il Presidente del suo partito, Peru Libre, Vladimir Cerron.
Però queste mosse autoritarie non hanno fatto altro che fargli perdere consensi soprattutto nel suo elettorato, al punto che per ben due volte il Parlamento ha cercato di usare contro di lui una regola costituzionale che prevede le dimissioni per incapacità, senza peraltro ottenere la maggioranza per applicarla. Ma ora la situazione si è fatta decisamente più tragica dopo le continue e massive manifestazioni già citate e soprattutto l’uso decisamente impopolare del coprifuoco nella capitale Lima, che ha costituito la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, facendo tornare indietro il Perù di 30 anni.
Questo perché le politiche di Castillo, che hanno registrato anche un’estrema confusione ideologica cambiando spesso di direzione e tradendo anche in alcuni momenti la sua ideologia “rivoluzionaria”, nella conduzione del potere hanno provocato un crollo economico che, complice anche la situazione internazionale sviluppatasi dopo il conflitto russo-ucraino, ha causato un’impennata dei prezzi tale da costituire il carburante che ha alimentato le proteste.
E per affrontare questa situazione il Presidente ha proposto di calmierare i prezzi e un aumento percentuale dei salari minimi (portati all’equivalente di circa 300 dollari)m provvedimenti che però non hanno di fatto calmato gli animi: che anzi, nella seduta parlamentare dell’8 aprile scorso, hanno portato a una nuova richiesta di dimissioni, questa volta approvata con 61 voti a favore, 43 contro e solo un astenuto.
Solo il giorno precedente la votazione, in un suo discorso a Huancayo, Castillo aveva pubblicamente chiesto scusa per i suoi errori e i 5 morti registrati nelle manifestazioni contro di lui: ma questo non è servito che ad aggravare una situazione che ora si trova appesa a un filo e con imprevedibili sviluppi nell’immediato futuro. Anche se l’alt imposto dal Parlamento nell’ultima votazione non obbliga il Presidente a dimettersi, costituisce però un segnale molto forte anche perché qui non è solo un Parlamento a invitarlo a farsi da parte, ma la nazione intera.
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