Il dilemma delle elezioni peruviane, in bilico tra due candidati agli antipodi politici, si è risolto da circa una settimana e Pedro Castillo ha ufficialmente assunto l’investitura di Presidente del Perù nell’anno che celebra il bicentenario della nascita di questa nazione. Già avevamo anticipato che, nelle recenti elezioni, il Paese si trovava a scegliere tra due concezioni populiste ma esattamente opposte, fatto che non avrebbe giovato al futuro di una nazione che negli ultimi anni, pur attraversata da uno tsunami politico derivato dalla raffica di dimissioni e processi seguiti allo scandalo Odebrecht, che ha investito diversi Paesi latinoamericani, aveva registrato una sorta di miracolo economico che l’ha portata a uscire da una crisi che sembrava senza fondo. Poi è arrivata la tornata elettorale che alla fine, in un caos di riconteggi, ha portato il leader comunista Castillo alla presidenza.
Terzo di nove figli di contadini analfabeti, ha subito un’infanzia e un’adolescenza difficili, lavorando come risicoltore e venditore di gelati per pagarsi gli studi. Laureatosi in Psicologia dell’educazione all’Università di Trujillo e successivamente insegnante nella scuola del suo paese natale, dove ricopriva pure gli incarichi di bidello e cuoco della mensa. La sua carriera politica è iniziata come candidato sindaco del Distretto di Anguìa per il partito Perù Possible e la notorietà gli è però arrivata come leader sindacale durante uno sciopero degli insegnanti che, pian piano, ha investito tutto il Paese: la vertenza alla fine fu risolta direttamente dall’allora Presidente Kuczynski, ma Castillo balzò agli onori della cronaca. Quest’anno si è candidato alla Presidenza per il partito Perù Libre che alla fine si è imposto nel ballottaggio con Keiko Fujimori in una delle elezioni più contrastate della storia del Paese.
Si definisce marxista, ma nella sua essenza siamo di fronte a un miscuglio di conservatorismo sociale riguardo ai temi etici, essendo contrario non solo all’aborto, ma pure al matrimonio gay e al consumo di droghe leggere, cose che però sono bilanciate dai vari proclami di stampo decisamente comunista attraverso la proposta di nazionalizzazione di varie importanti imprese (gas, petrolio, energia idroelettrica e telecomunicazioni) per finanziare programmi sociali.
La cosa strana è che, nel corso della campagna elettorale, verso la fine, ha letteralmente cambiato idee e ritirato non solo il progetto appena illustrato, ma anche le definizioni sulla sua ideologia politica. In molti hanno visto, che si voglia o no, una replica della tattica usata in Venezuela da Chávez per imporsi alle elezioni, spargendo ai quattro venti la sua fedeltà agli ideali democratici, di una politica del bene comune, e con questo catturando il voto di ampi settori della società al punto che fu inutile far capire alla gente la distonia della sua propaganda politica con i continui viaggi a Cuba e gli incontri con Fidel Castro & c., persone che di certo non sono etichettabili come democratici. Ma tant’è, una volta preso il potere il chavismo ha rivelato la sua identità, con sommo dolore di gran parte dell’elettorato venezuelano.
Di certo, al confronto con il dittatore del Paese caraibico, Castillo ha dalla sua un problema non proprio di poco conto che è rappresentato da un’opposizione specchio di un Paese politicamente diviso in due, oltretutto con una classe imprenditoriale con ampi poteri e un Parlamento nel quale ogni progetto che si discuterà troverà una compattezza che di certo renderà difficilissima qualsiasi realizzazione. Dalla sua parte invece si trova con un elettorato in gran parte rappresentante delle comunità campesine e indigene che, viste anche le sue origini e la nobilissima sua storia personale, sono convinte di aver finalmente eletto a Presidente (a ragione) uno di loro: che però dovrà percorrere un cammino irto di ostacoli.
In molti credono che dopo un secolo nel quale il comunismo ha incamerato solo fallimenti e ha avuto come risultato invidiabile la moltiplicazione della povertà, Castillo saprà trovare la formula per farlo funzionare bene. Anche se la speranza è sempre l’ultima a morire la sua prima decisione è stata quella di nominare Guido Bellido come presidente del Consiglio dei ministri, ergo un personaggio non solo appartenente all’ala più estrema del partito Perù Libre, ma pure indagato per apologia del terrorismo. “Le parole non bastano e occorrono fatti concreti che le dimostrino”, ha dichiarato Castillo dopo questa mossa e specialmente dopo che invece aveva invitato l’opposizione in un Governo di unità nazionale per il bene del Paese. Smentendosi subito per l’ennesima volta, a dimostrazione che ci troviamo quasi sicuramente di fronte alla solita illusione: il bene comune può attendere.
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