BUCAREST – Sono numerosi gli amici che, dal 24 febbraio, sapendomi in Romania, hanno cominciato a chiedermi come ce la passavamo qui a Bucarest essendo la città relativamente vicina all’Ucraina dove, proprio quella notte, era scoppiata la guerra.
In effetti, guardando le mappe pubblicate sui giornali italiani, mi sono resa conto anch’io che l’interrogativo era legittimo: tutta l’area nordorientale della Romania confina infatti con l’Ucraina e pertanto non dista molto dalla zona degli scontri.
La tentazione più grossa, in questi momenti, è di rimanere incollati a Tv e cellulari per seguire passo passo l’evoluzione dei fatti con la curiosità un po’ morbosa di chi si consegna acriticamente ai media come fossero lo strumento privilegiato per conoscere finalmente come stanno le cose.
Ho imparato invece che l’unico vero principio di conoscenza si chiama Avvenimento e ancora una volta ho avuto modo di verificarlo secondo un metodo a dir poco infallibile: assecondare la realtà nella forma con cui ti raggiunge.
La prima verifica l’ho fatta ascoltando la testimonianza lucida e convincente di monsignor Pezzi, arcivescovo metropolita di Mosca, che domenica 27 febbraio ha partecipato all’incontro “Russia Ucraina: Una speranza impossibile?” sul canale YouTube di Suonate le campane. La confusione a cui assistiamo – osservava l’arcivescovo – ha lo scopo di uccidere quella speranza di cui l’uomo è impastato e alla quale, checché se ne dica, non intende rinunciare. Diversamente da tanti che con cinica rassegnazione si rifugiano nella preghiera come se si trattasse dell’“ultima spiaggia”, monsignor Pezzi ha dichiarato che “noi possiamo fare, e possiamo fare moltissimo. Si tratta, in buona sostanza, di vivere con la nostra responsabilità e la nostra offerta, tutto quanto ci è chiesto di fare, rispondendo là dove ci troviamo ad essere”. “L’arma della preghiera quindi – almeno per chi è familiare all’esperienza della Chiesa – è l’inizio, il contenuto e il termine di ogni azione. Il problema è crederci senza mettere fuori gioco Dio”. La speranza dunque non è un’astrazione, ma qualcosa di reale che si affaccia alla coscienza dell’io e lo sollecita a prendere posizione, a muoversi.
Ho capito così che anch’io potevo compiere questa mossa pur rimanendo a Bucarest, mentre tanti nostri fratelli uomini, ucraini e russi, stavano morendo non lontano da qui sotto la morsa tirannica della guerra.
Il mio cammino l’ho cominciato seguendo, sul whatsapp postato da sua madre, le traversie di Elena, da anni responsabile di una Ong nella città di Kharkov, che aveva intrapreso, insieme agli altri componenti dell’organizzazione, il lungo viaggio per uscire dall’Ucraina: dopo quaranta ore di coda alla frontiera slovacca, sono riuscite finalmente ad entrare in Europa; solo le donne naturalmente, perché agli uomini non è consentito abbandonare il paese. “Seguire” un viaggio che, senza esagerare, è paragonabile a un esodo, rappresenta già un’esperienza forte che ti costringe a fare i conti con la realtà e non con l’astrazione.
A riprova di questo, lunedì si è aperto, imprevedibilmente, un altro fronte: da Roma mi contatta Riccardo. Non lo conosco, ma è l’amico di un amico. Mi comunica che, dal confine con l’Ucraina, sta arrivando a Bucarest una giovane: per lui è come una sorella. Mi chiede se può darle il numero del mio cellulare, è una tipa sveglia, aggiunge Riccardo: conosce tre lingue, ma se dovesse avere bisogno, saprà a chi rivolgersi! Gli do l’ok, ma mi sorprendo a indugiare e subito me ne vergogno. La speranza non è un’astrazione!
Aspetto trepidante una chiamata che però non arriva. Ad arrivare invece è un nuovo whatsapp di Riccardo. Questa volta la richiesta è più complessa: si tratta sempre di un’amica; ha già passato il confine insieme alla cugina incinta, la figlia della cugina di circa sette anni e un cane; sono in treno, dirette a Cluj; arrivo previsto per l’una dopo mezzanotte; alle 7 di quello stesso giorno hanno un treno per Budapest. La prospettiva è che passino la notte in stazione senza avere un luogo che possa in qualche modo accoglierle. La speranza non è un’astrazione. So bene che a Cluj ci sono degli amici. Ho il loro numero di cellulare; inoltro il messaggio di Riccardo con un veloce copia/incolla preceduto da un’introduzione che contestualizzi i dati. Dopo qualche minuto, rispondono alla mia richiesta, con una domanda: “Quanto è grande il cane?” È qui che sento esplodere la carità, quella vera, che non si difende, non obietta, non esige spiegazioni, non conosce repliche. Mi “intimano” di dare subito a Riccardo il loro numero.
Accade così l’impossibile corrispondenza: gli amici di Cluj aprono la loro casa a questo piccolo drappello di ucraine, cane compreso; li ospitano per quella notte e la mattina decidono di condurle loro stessi, in auto, a Budapest. “Siamo piccoli, in questa vicenda – scrive a Riccardo la signora – ma desideriamo tantissimo che Lui non si senta solo, lì, sulla croce”.
Anch’io, dopo questi fatti e prima dei prossimi che certamente accadranno, mi sento più solidamente ancorata al grande abbraccio della Sua pietà e persuasa che il sacrificio di tante vite spezzate dalla follia della guerra cominci misteriosamente a fecondare il mio cuore, fino a germinarvi un nuovo più vigoroso seme di speranza.
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