LONDRA — Settimana scorsa si è tornato a parlare di Brexit. Sembrava quasi che ce ne fossimo dimenticati, travolti dall’emergenza coronavirus, eppure il tempo passa e la scadenza del 31 dicembre, oltre la quale Londra dice che non intende andare, è vicina. Ci sono state voci su una possibile estensione della data di uscita definitiva del Regno Unito dall’Unione Europea, ma il governo Johnson sembra determinato a non cambiare idea. I tempi per i negoziati erano già considerati stretti prima del coronavirus, figuriamoci ora che siamo ad aprile e che l’Europa ha ben altro in cima alla sua agenda, con i vari paesi membri alle prese con una crisi economica senza precedenti. Stesso discorso per il Regno Unito, con la differenza che sulla Brexit (e sul mantenimento delle scadenze) si gioca la credibilità di questo governo.
E allora forse per fare un po’ di pressione su Bruxelles, forse perché fa parte dei giochi quando ci sono di mezzo importanti accordi, una “fonte vicina ai negoziatori britannici” ha parlato qua e là a vari organi di stampa, nazionali ed anche stranieri. Non a caso, i toni usati sono stati duri. Il messaggio passato alla stampa è che un accordo commerciale con l’Ue è ancora possibile, ma c’è il rischio che i colloqui collassino a giugno se Bruxelles non abbandona la sua posizione sulla pesca (cioè la richiesta di continuare ad avere accesso alle acque britanniche) e sul cosiddetto “Level Playing Field”, ovvero le norme comuni sulla concorrenza in settori come il lavoro, l’ambiente, le tasse e gli aiuti di Stato, come condizione per avere accesso al mercato comune europeo post-Brexit.
A giugno bisognerà decidere se rinviare o meno la data della Brexit e anche qui le posizioni divergono: se per l’Ue la data doveva comunque essere rinviata, ben prima della pandemia, perché il tempo per gli accordi commerciali è considerato insufficiente, per la Gran Bretagna la data non è rinviabile e gli accordi si possono siglare anche in pochi mesi.
Di fatto, se Londra abbandonasse il tavolo dei negoziati spunterebbe di nuovo lo scenario del no-deal, cioè di una uscita senza accordo. Non si può tuttavia ignorare l’impatto che il coronavirus sta avendo anche sull’economia britannica. Impennata del debito, milioni e milioni di sterline iniettati nell’economia per salvare posti di lavoro e impedire fallimenti, prospettive di recessione, etc. Non è più la Gran Bretagna uscita dalle elezioni di dicembre e Johnson non può fare tanto la voce grossa con gli altri paesi. La crisi comincia a mordere anche qui e parecchio.
A parte Brexit, la notizia più significativa degli ultimi giorni è che il target dei 100mila test al giorno promessi dal governo è stato finalmente raggiunto. Sembrava impossibile che entro il 30 aprile si riuscisse ad aumentare drasticamente la capacità di fare test (da una media di 29mila al giorno) ai cosiddetti key workers, i lavoratori chiave, quelli più esposti al rischio e soprattutto essenziali in questo periodo. Grazie ai militari, è stato possibile. Lo avevamo detto qualche giorno fa: se il miracolo ci sarà, il merito andrà all’esercito, che ha dispiegato gran parte delle sue risorse per rendere funzionali ed efficienti delle unità mobili in aree parcheggio di diverse zone del paese.
Quanto al premier, Boris Johnson, è tornato in pubblico dopo essere guarito dal coronavirus per dire che bisogna tener duro e non vanificare gli sforzi fatti finora. A una nazione molto impaziente di tornare alla vita di prima, il premier ha detto che il lockdown continua ma che la prossima settimana annuncerà i dettagli della exit strategy. Quindi il governo ha cominciato a lavorare sul piano di riapertura, messo anche sotto pressione dall’opposizione, preoccupata dell’impatto economico che la crisi sta avendo su molti lavoratori.
Johnson ha anche annunciato, insieme alla compagna, di essere diventato papà. Il nome del figlio, Wilfred Lawrie Nicholas, è un omaggio ai rispettivi nonni, ma anche ai due medici che gli hanno salvato la vita. Il nome Nicholas è il tributo ai dottori Nick Price e Nick Hart.