Ho letto lunedì mattina sul Tablet, un magazine ebreo pubblicato negli States: “Gli americani, che siano di sinistra, destra o centro concordano sul fatto che in America ci sia troppa disuguaglianza. Solo che non riescono a concordare su che razza di disuguaglianza ci si debba lamentare. Incapaci di mettersi d’accordo su quale sia il problema, non possono mettersi d’accordo sulla soluzione”. Disuguaglianza? Sure! Ognuno si serva come vuole, ce n’è per tutti i gusti: disuguaglianza economica, culturale, disuguaglianza come disparità demografica, e di lì tutte le discriminazioni che “inevitabilmente” conseguono a tutte queste “diversità diseguali”.



Leggere un giudizio così lunedì 16 gennaio, Federal holiday, giorno festivo dedicato a Martin Luther King e pensare a tutto il cammino lungo, faticoso e doloroso del Civil Right Movement, fa un certo effetto. Non bello. Più volte ci siamo soffermati sulla questione razziale in America, questa piaga incurabile che non vuol guarire, ma occorre continuare a farlo perché, come dice il Tablet, essendo incapaci di metterci d’accordo su quale sia il problema, non possiamo metterci d’accordo sulla soluzione. Ogni tanto dalla ferita sgorga sangue, e allora il tema torna ad essere urgente e si cerca di rappezzare la questione con provvedimenti normativi o con qualche sentenza di tribunale. Ma la cura resta ignota.



Sentenze. Anche le sentenze non sono tutte uguali e per questa estate se ne attende una della Corte Suprema, quell’istituzione considerata una sorta di Sedes Sapientiae da metà del Paese, ed un covo di vipere tradizionaliste dall’altra metà. La Corte si pronuncerà sulla costituzionalità dell’Affirmative Action, quell’insieme di procedure poste in essere per far fuori discriminazioni (illegittime) tra candidati in cerca di ammissione ad un programma educativo (solitamente si parla di College universitario), o alla ricerca di un impiego professionale – oppure ancora azioni tese a rimediare ai risultati di discriminazioni già poste in essere e prevenirne il ripetersi.



Con Affermative Action stiamo parlando di roba messa in piedi dall’amministrazione del presidente Lyndon Johnson (1963-1969), frutto delle sue mai chiare negoziazioni con King, al fine di migliorare le opportunità di integrazione sociale per gli afroamericani. Il tutto mentre la legislazione sui diritti civili operava lo smantellamento della base legale per la discriminazione.

Cosa vuol dire l’Affirmative Action in pratica? Vuol dire che i Colleges dovranno fare di tutto per reclutare minoranze. L’avventura sul campo dell’Affirmative Action cominciò nel 1964, quando, nel tentativo di cancellare la sua immagine di chiostro privilegiato per famiglie ricche e bianche, la Wesleyan University di Middletown nel Connecticut contattò 400 studenti neri neo-diplomati in giro per il Paese per convincerli a presentare domanda di ammissione. Uno studente “latino” e 13 di colore si iscrissero dando vita a quella che venne chiamata “l’avanguardia di Wesleyan”.

Da quel momento il mondo universitario cominciò a mettere a bersaglio le varie minoranze etniche lanciando campagne di reclutamento ed istituendo una quantità di corsi specificamente intesi ad attirare questa popolazione. Di lì a privilegiare un bilanciamento numerico tra le varie etnie rispetto al merito il passo è breve. Così cominciò a diffondersi l’idea, naturalmente abbracciata dai conservatori, di una “discriminazione alla rovescia”. Seguirono le denunce del 2014 contro le università di Harvard e del North Carolina (che sono all’origine della questione ora nelle mani della Corte Suprema) presentate da un gruppo denominato “Studenti per un’equa ammissione”, gruppo di azione anti-affermativa, che sostiene che le università discriminino i candidati bianchi e asiatici dando preferenza e precedenza a studenti neri, ispanici e nativi americani. Da allora, otto Stati hanno imposto restrizioni al disposto della Affermative Action: Arizona, Florida, Idaho, Michigan, Nebraska, New Hampshire, Oklahoma e Washington.

Se è vero che nel 2016 nel caso “Fisher v. University of Texas” la Corte ha riaffermato che la diversità è un primario ed urgente interesse governativo, è anche vero che la Corte di oggi non somiglia molto e quella del 2016.

We’ll see, vedremo, ma tra questa pronuncia ed un’altra che si profila all’orizzonte sul tema dei doveri del lavoratore dipendente e diritto all’esercizio della propria libertà di credo c’è tutta una America che cerca – ansiosamente – il suo vero volto.

God Bless America!

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